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La pittura di Saghar Daeiri apre una perturbante distorsione nella verità
Mostre
di Diego Osimo
Nel bagno caustico di un colore acceso e ipersaturo si consuma, silenziosamente, il deterioramento della società contemporanea: vivida, brillante, accattivante come il packaging luccicante di un prodotto di successo. Un parallelismo che trova piena espressione nei lavori di Saghar Daeiri (Teheran, 1985), dove la natura perturbante delle immagini è mitigata dall’apparenza di un clima solare e rilassato. È solo a uno sguardo più attento che si svela il logoramento di modelli, costumi e identità, travolti dall’estetica seducente di Sun of the Beach, la mostra personale dell’artista iraniana alla Shazar Gallery di Napoli, ancora visitabile per pochi giorni, fino al 31 maggio 2025.
L’ingresso in mostra è segnato dall’omonima Sun of the Beach (2025), l’opera che dà il titolo all’intera esposizione: un acrilico e olio su tela in cui, a un primo sguardo, domina l’illusione di un paesaggio estivo e spensierato ma basta avvicinarsi per cogliere l’anomalia diffusa che deforma ogni angolo della composizione. Non è soltanto l’affiorare di un immaginario perturbante a spiazzare — con corpi che sembrano prigionieri, oggetti disfatti e sorrisi che inquietano più che rassicurare — quanto la totale instabilità delle direzioni e delle forme. Un paesaggio boschivo emerge capovolto in verticale, un paio di gambe pendono accanto a una testa riversa, mentre un paesaggio vulcanico e sanguigno si insedia in uno squarcio roccioso, ignorando l’asse spaziale che sembrava suggerito dal mare in primo piano.

La coesistenza di dimensioni opposte e contrastanti si ripete di continuo non soltanto per destabilizzare ma per annullare la certezza che possa esistere una realtà univoca e immune alle altre realtà. In Ecliptic Smile (2025) coesistono sorrisi e terrori di sguardi celati da occhialini 3D — perforati dal colore, in cui non vi è alcun riflesso — che sostano contemporaneamente alla sommità, come uno sciame, e al di sotto di un terreno violaceo, quasi digitale, in cui sembra ribollire un fiume al neon.

Ma l’abilità compositiva di Saghar Daeiri si esprime tanto nel capovolgimento suggestivo, quanto nell’utilizzare luci e ombre per complicare e moltiplicare maggiormente le visioni. Al centro di Reverse Verses (2025), infatti, mentre sul bagnasciuga si intravedono figure al contempo felici e dannate, un panno leggero appare tanto sospeso quanto poggiato e, per quanto la luce suggerisca un verso, la costruzione della forma — e, in primo luogo, l’imponente schiera di rami appuntiti che pendono dal cielo — continua ad ampliare il perimetro dell’incerto, anche quando ci si concentra su un singolo orientamento.

Le direzioni, dunque, abbandonano il dovere di far da regola e diventano possibilità narrative, coesistendo e intrecciandosi, come in Apocalypse in Eclipse (2025), dove la frenesia disordinata e l’orrore di una folla coesiste perfettamente con l’agiatezza e la calma di pochi, fortunati e inconsapevoli individui. Un “pregiudizio universale” fatto di pesi e misure differenti — che si percepiscono perfettamente anche nello sbilanciamento della materia pittorica — a garanzia di un’élite che può vantare tanto la salvezza, quanto l’apparente e dolce inconsapevolezza; una sguardo lucido che supera la critica all’agiatezza e insiste, piuttosto, sul rapporto dell’umanità nei confronti della verità che è tanto evidente, quanto distorta.

Ma l’artista domina la quantità della materia, come espediente sensoriale, soprattutto nella sala che ospita le placche metalliche della serie They were alive but they thought they are evil (2025), realizzata secondo i principi del Mentalismo, con cui l’artista esprime tutto il potere che la mente può esercitare sulla definizione della realtà. In queste installazioni il supporto diventa del tutto marginale, utilizzato soltanto per modulare la composizione fatta di luci e ombre, qui poste nella tradizionale dicotomia tra bene e male; agli occhi dello spettatore non appare nulla, le lastre metalliche sono poste all’altezza dello sguardo e diventano praticamente impercettibili, mentre il doppio effetto luministico genera contemporaneamente definizioni opposte, come “evil” e “live”, a partire dalla stessa composizione di lettere.

Alla stessa serie appartengono anche i teli di chiffon meticolosamente dipinti secondo una tecnica che permette, questa volta, di osservare nuovamente le opere da un doppio punto di vista, ora posto su un asse verticale che interseca trasparenza, colore e spazio. Anche in questi lavori, torna la straordinaria capacità di Saghar Daeiri nell’utilizzare le dimensioni e le direzioni come strumenti per una costruzione narrativa contrastante e mutevole: una nuotatrice sembra tuffarsi verso l’alto, mentre qualcuno annega nel cielo; l’acqua sembra precipitare come tempesta e risalire, al contempo, come un’onda anomala.

In mostra vi è un unico lavoro in cui la scansione temporale e spaziale non subisce distorsioni: si tratta di Eternal Triple Rhapsody (2025) dove una figura umana annega lentamente nel trittico di un’intera giornata, deturpata e funesta, dove il colore del cielo — all’alba, in pieno giorno e notturno — si intravede soltanto nei contorni dei caratteri arabi che sovrastano l’immagine; una stasi che abbandona la libertà espressiva e movimentata degli altri lavori e che l’artista lega proprio alle costrizioni del territorio da cui proviene.

Questo lavoro permette non solo di osservare una costruzione pittorica del tutto diversa ma anche di comprendere il senso più intimo delle altre opere in mostra: nel vorticoso e frenetico racconto di Sun of the beach, il centro non è occupato dalla critica alla società dei consumi o al decadimento della contemporaneità — che pur svolgono un ruolo fondamentale —, ma dalle difficoltà che derivano dal desiderio di voler raccontare una verità che sarà sempre e inevitabilmente umana, relativa e indefinita.














