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In uno scenario ideale, nel quale il muro di via di Porta Tenaglia 7 fosse in grado di fungere da filtro all’inquinamento acustico che irrompe indiscriminato, risuona in tutti gli spazi, rimbomba tra le pareti e porta il fragore dei mezzi di trasporto sul pavè malfermo di Piazza Lega Lombarda, ecco allora che potremmo apprezzare il delicato canone che le opere di Nina Canell intonano. In uno scenario ideale sarebbe possibile varcare la soglia della sede milanese di kaufmann repetto lasciandosi richiamare dal tintinnio vibratile dei gusci di pistacchio e unghie adesive assicurati all’anima filiforme che fa loro da sostegno in Pistachio Pangolin on the Continuous Fingernail Transmitter (2020).

In uno scenario ideale sarebbe possibile – e forse ancora più semplice – essere attratti dal rotolare sordo delle pietre di fiume che si muovono svogliatamente picchiando le une sulle altre per caritatevole intercessione del nastro trasportatore Murmur (2025).
Ma nel mondo reale, dove non è possibile zittire o perlomeno attutire il chiasso della città, dove non è dato di invocare la comparsa di una bolla anecoica nella quale lasciarsi guidare puramente dall’udito, non resta che appellarsi alla congrega di tutti i sensi, eleggere la vista quale prima risorsa nell’orientamento e procedere con attenzione.
In questo scenario, la prima restituzione della retina è quella di un paesaggio mutato e quasi metafisico: la superficie piana dell’ingresso alla galleria, incorniciata ai lati dal verde di un bosso o un lauroceraso, puntellato qua e là da foglie sfrangiate di felce e da qualche fiore bianco di ortensia, è sgombra dalla presenza dell’installazione permanente fantasia (2011) di Latifa Echakhch. Al suo posto, a sostituire lo slancio verticale delle aste metalliche, è un paesaggio pianeggiante, quasi bidimensionale, che si esprime rasoterra. Un arcipelago di pietre grigie la cui superficie superiore, perfettamente piatta, è animata da una leggera oscillazione o forse meglio un riverbero luminoso. Si tratta di lastre di marmo arabescato orobico originario della val Brembana, nato milioni di anni fa dalla ricristallizzazione metamorfica dei calcari triassici, qui segmentato in porzioni di varia forma e dimensione sulle quali alloggia placido un velo d’acqua contenuto da un perimetro idrofobo, miracolosamente asciutto.

È facile immaginare che l’azione degli agenti atmosferici possa influire sull’aspetto di questa installazione, che è destinata ad accogliere pollini, polveri, pulviscolo e pioggia, nonché a vedersi sottratta parte della propria materia per via della fisiologica evaporazione dovuta alle temperature estive. A un occhio disattento, Days of Inertia (2025) potrebbe sembrare un semplice titolo evocativo, eppure è impossibile non rintracciare in questa opera una sorta di profezia autoavverante o perlomeno una rapida proiezione del suo destino: costretta in una fissità all’apparenza immutabile e resistente alle leggi della fisica essa nasconde una forma di poetico abbandono, una tentazione a lasciar andare, a permettere a tutto ciò che è altro rispetto ad essa di interagirvi, di entrarvi in relazione diretta, di mutarne l’aspetto o l’essenza anche solo in minima parte. Diviene evidente, in opere come questa, lo sguardo di Canell che osserva la materia nella sua condizione più elusiva, quella dell’inattività apparente, dove l’energia si manifesta in modo impercettibile o se non altro rallentato. L’inerzia – intesa come resistenza frammista ad abbandono al cambiamento – è protagonista assoluta e mette in scena una tensione diffusa e al contempo latente. Un’inerzia intesa non tanto come stato da superare ma come qualità da osservare, soprattutto a partire dal momento nel quale l’artista stessa, avendo completato il proprio gesto, abbandona l’opera alla propria vita, ormai autonoma, libera, indipendente.

E mentre ci si incammina verso l’interno dello spazio espositivo, seguendo le tracce dei frammenti di marmo cinereo, non resta che chiedere alla retina di percorrere il tragitto segnato dall’opera e far correre lo sguardo lungo la parete di fondo, in corrispondenza della quale spicca un arco semicircolare: forse un portale o una soglia. Si tratta di Bubble Cult (2025), nella quale livelle da cantiere vengono frammentate, assemblate e letteralmente piegate alla volontà dell’artista, curvate e private della precisione, dell’equilibrio e dell’orizzontalità che sono loro proprie e, in ultimo, trasformate in elementi felicemente incapaci di assolvere alla propria funzione originaria. Alienate dalla propria funzione, modificate, rese organiche e flessibili, le bolle di Canell perdono la capacità di misurare il mondo ma divengono a modo loro strumenti atti a mettere in discussione l’ordine razionale delle cose.

In ambito fisico, chimico e biologico si dice stato di latenza di quella condizione intermedia nella quale una sostanza o un organismo non sono attivi ma potenzialmente attivabili e godono di un’energia intrinseca in attesa che condizioni più favorevoli si verifichino e consentano loro di manifestarsi. C’è, nelle opere di Nina Canell, una qualità silenziosa che appartiene al mondo della latenza: la stessa di una sostanza che cambia stato senza clamore o un seme che trattiene in sé l’intero potenziale del proprio futuro vegetale, senza darlo ancora alla luce. Oggetti dismessi o tecnologici vengono sottratti dall’artista alla loro funzione originaria e collocati in uno spazio di attesa, di sospensione operativa. Le loro energie residue non sono scomparse ma sopite, trattenute, in ascolto.

È infatti nell’attesa di un nuovo scatto del nastro trasportatore, nella vibrazione del motore, nell’impercettibile aggiustarsi della piccola bolla d’aria compressa in una capsula piena di etere solforico o nella semplice evaporazione dell’acqua che è possibile rintracciare quella stessa idea di tempo sospeso, di trasformazione imminente o di cambiamento possibile che sono propri dei fenomeni naturali. In costante attesa o in divenire, le opere di Canell racchiudono quei momenti fugaci che consentono di passare da uno stato al seguente e costituiscono un invito a una partecipazione percettiva attenta e quasi meditativa, tesa a cogliere i segnali minimi ma inequivocabili di ciò che non è immediatamente manifesto. Days of Inertia è un invito a percepire ciò che è in sospeso, ciò che non agisce ma insiste silenziosamente.

Vale dunque la pena fare uno sforzo di immaginazione e proiettarsi in un mondo ideale, nel quale il fragore del mondo esterno non infici la bontà della visita e nel quale un accordo paritetico di vista e udito riesca a generare le condizioni perfette per immergersi in questo percorso dedicato ai visitatori più attenti, ai quali non ci resta che augurare: buon viaggio.














