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Parigi, da Hauser & Wirth va in mostra un Francis Picabia inaspettato
Mostre
La galleria internazionale Hauser & Wirth presenta, nella sua sede di Parigi, una mostra dedicata a Francis Picabia, maestro delle Avanguardie artistiche del Novecento, in stretta collaborazione con il Comité Picabia – ente che si occupa di salvaguardare l’opera dell’artista attraverso la conservazione degli archivi – e curata dalla sua presidente Beverley Calté e dallo storico dell’arte Arnauld Pierre. A pochi giorni dal termine, l’esposizione si prepara per andare oltreoceano, nella sede della galleria a New York, dove inaugurerà il primo maggio. Si tratta della prima, grande esposizione che riunisce più di 40 opere realizzate dall’artista nell’ultimo periodo della sua vita.

Nel 1945, Picabia ritornò a Parigi nella sua casa di famiglia, dopo diverso tempo trascorso in Costa Azzurra, e vi rimase sino alla sua morte, avvenuta nel 1953. In questi sette anni, abbandonò del tutto i suoi celebri nudi del periodo bellico per allontanarsi dalla figurazione e mettere in atto una profonda sperimentazione, conferendo maggior rilievo alla consistenza della superficie dipinta e a soggetti astratti, che conservano solo alcune reminiscenze di elementi reali.

Egli stesso, infatti, non parlava di figurazione o astrazione ma, piuttosto, di “prefigurazione”, proprio per l’utilizzo di materiale visivo preesistente, come ha spiegato Pierre, nell’incontro dedicato all’artista. Questi riferimenti erano tratti da una vasta collezione di immagini o dai suoi stessi dipinti precedenti, che continuava a rivisitare in una stratificazione che mostrasse i livelli stessi, senza coprirli fino in fondo.

Al ritorno nella sua città natale, nell’antico atelier del nonno, corrispondeva anche un nuovo inizio, che si esplicitò nella serie dei Points (Punti), che espose per la prima volta alla Galerie des Deux Îles. Lo sfondo, apparentemente uniforme, trova nei punti colorati una deriva anti pittorica. La figura resta semi nascosta, si intravede con i colori più chiari o nei punti in cui i livelli di colore acquisiscono uno spessore tale da permettere la definizione visiva dei contorni. La serie non venne accolta bene dalla critica, anzi passò quasi inosservata. Nel secondo piano della galleria Hauser & Wirth si dà invece ampio ascolto alla serie: ne vengono esposte ben 13 opere e in una di esse si può osservare la scritta “Instinct de vérité pour conserver la vie” – Istinto di verità per preservare la vita. Questo lavoro simboleggia il bisogno dell’artista di preservare se stesso, come garanzia di coerenza artistica, nonostante la lontananza visiva da quel Picabia che tutti conoscono e approvano.

Nonostante questa fase così radicale in fatto di produzione artistica, Picabia offriva il suo studio come luogo di scambio costante agli amici, tra cui Henri Nouveau, Francis Bot, Hans Hartung, Camille Bryen, Pierre Soulages, Georges Mathieu, Raoul Ubac, Jean-Michel Atlan. Ancora energico a 65 anni, l’artista si allontanò dal realismo popolare della guerra per intraprendere un percorso dinamico e lontano da qualsiasi categorizzazione, nonostante gli incitamenti degli amici artisti che volevamo riuscire a definire una terza via, soprattutto attraverso il Salon des Surindépendants, che si ponesse a metà strada tra il movimento Surrealista e le nuove forme di astrazione di allora.

Sebbene Picabia non abbia mai scelto di essere incluso in nessuno dei movimenti, le sue opere del dopoguerra sono state associate a un tipo di arte cosiddetta “informale”. Lo si può notare in Rapport avec les vertus – In relazione alle virtù (1949) in cui vi è una mancanza di definizione, come un’incertezza della linea sebbene sia contorno o degli stessi colori che ne riempiono le parti che baluginano come la luce riflessa sull’acqua. Allo stesso modo in Colloque – Colloquio (1949) la geometria si scontra con la sinuosità necessaria alla rappresentazione, ma la prospettiva salva entrambe nascondendo il muso del toro e il volto di donna che vi sta a cavalcioni.

La particolarità dell’esposizione risiede soprattutto nella scelta di riunire un gruppo di opere meno considerate dal pubblico del tempo e sostanzialmente misconosciute a quello di oggi, nella concezione di presentare una parte comunque rilevante nella ricerca artistica, peraltro esponendo lavori che, per la gran parte, appartengono a collezioni private, quindi non in vendita. In questo modo, la galleria sembra aver intrapreso un progetto teso più alla fruizione e alla divulgazione che al mercato, come per colmare dei vuoti istituzionali.



