19 dicembre 2019

Radicalità dello scarabocchio: Carola Provenzano al Walden di Milano

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In occasione della sua mostra al Caffè Letterario Walden di Milano, Carola Provenzano ci parla del linguaggio dello scarabocchio, in dialogo con l'atropologo Franco La Cecla

Opera di Carola Provenzano da Walden

La mostra “e questo cos’è?” di Carola Provenzano, a cura di Valentina Avanzino, approda in questi giorni al caffè letterario Walden di Milano. In esposizione fino al 12 gennaio 2020, una serie di opere intangibili, che prendono forma da un atto dissacratorio.

Se Emilio Isgrò ha fatto della cancellatura la sua arte, Carola Provenzano accoglie al contrario lo scarabocchio: un tratto di inchiostro impreciso che non mira a nessuno scopo ordinato ma che riscrive i supporti delle sue opere con narrazioni e percorsi infiniti. Nell’opera E questo cos’è?, tre eventi storici mostrano immagini che sembrano attraversare ricorsivamente ogni individuo.

L’antropologo Franco La Cecla, presente alla serata di inaugurazione, fornisce uno spunto di riflessione utile ai lettori dell’opera: «Gli scarabocchi sono sempre scrittura, tutto sta nel riuscire a decifrarla». Il lavoro di Carola Provenzano non verte quindi sulla negazione della scrittura ma, al contrario, sul valore che questa assume nella stratificazione. L’opera interviene sull’immagine, cercando nuove regole per leggere gli episodi storici maggiormente radicati nel nostro vissuto.
In occasione della presentazione della mostra al caffè letterario Walden, abbiamo incontrato Carola Provenzano, per farci raccontare meglio le sue impressioni.

L’impero, l’allunaggio, il naufragio: che legame hai visto fra questi tre eventi? Qual è la narrazione comune?
«Esistono certamente degli atteggiamenti dello spirito umano che sembrano radicati in ogni cultura indipendentemente dalla storia e che dunque, anche oggi, sembrano tornare. I tre eventi mostrati dai quotidiani ne rispecchiano alcuni tristemente tipici, come il nazionalismo o il razzismo. L’allunaggio, simbolo di un’idea di progresso che guarda più altrove rispetto al pianeta in cui viviamo, ci si dirige velocemente verso una meta ancora da scoprire ma sempre da superare.
In qualche misura sembra già superata prima di essere raggiunta: una specie di meta a metà. Anche se poi, a pensarci bene, ogni cultura è proprio caratterizzata dalla spinta al “progresso” ma ancora nessuno sembra averne capito fino in fondo il movimento paradossale. Se correre in avanti ci ha sempre portati al naufragio potremmo provare a fermarci, cercare forse nella nostra memoria i punti esatti dove abbiamo sbagliato e magari, finalmente, ripartire da lì».

Quali significati il tuo segno astratto riesce ad aggiungere – o a togliere – alle parole e alle immagini originali?
«Il segno astratto è un retrocedere del linguaggio scritto, il percorso a ritroso che dovrebbe fare l’essere umano per indagare nella memoria e riscoprire quali significati ha dato alle parole e capire, infine, che tipo di storia ha deciso di raccontare. Il tentativo è di mostrare qualcosa in più agendo per sottrazione ma senza utilizzare l’ormai retorico meccanismo del “less is more” e dunque il risultato appare in forma di scarabocchio, ingarbugliato e complesso come la struttura dell’universo. L’ordine è in chi osserva, non nell’osservato».

Pensi che i testimoni del tuo lavoro, e cioè chi ne fruisce, possano superare lo stato concettuale dell’opera e agire realmente per scrivere in chiave diversa queste narrazioni?
«Credo, molto umilmente, che il massimo che un’opera d’arte possa fare è suscitare emozioni o sensazioni che, tuttavia, non si trasformano mai in vere e proprie azioni. Sono, per così dire, atti senza scopo. Una presa di coscienza potrebbe sorgere certo, ma solo in chi già ha pensato, magari in forma diversa, a quegli stessi concetti e ora li vede su un muro trasformati in immagini.
Il fruitore si sentirà magari più forte, magari consolato, magari meno solo. Chi invece è distante dal concetto espresso, purtroppo, neppure leggerà l’opera nel modo in cui era stata concepita e le immagini prenderanno qualsiasi forma lui sceglierà di dargli. E ancora una volta, e forse va bene così, anche noi non saremo altro che scarabocchi».

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