28 aprile 2023

Salto nel vuoto, arte al di là della materia: la mostra alla GAMeC di Bergamo

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Una mostra poderosa e giocosa, per riflettere sul concetto del vuoto e sulle sue implicazioni: alla GAMeC di Bergamo, la terza e ultima tappa del progetto sulla materia dell’arte tra XX e XXI Secolo

Magritte, Le grand siécle, 1954, Kunstmuseum Gelsenkirchen, René Magritte by SIAE 2022

Salto nel vuoto: si può saltare in qualcosa che non è e quindi non c’è e non lo si può immaginare o invece il vuoto esiste?  A Bergamo, nell’anno di Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura, presso la GAMeC è allestita una coinvolgente, articolata, impegnativa, audace e insieme lieve, giocosa e chiara mostra di taglio internazionale, dall’intrigante titolo “Salto nel vuoto. Arte al di là della materia”, terzo e ultimo capitolo del progetto triennale sulla “materia nell’arte” dei secoli XX e XXI, di Lorenzo Giusti, qui insieme a Domenico Quaranta. Dopo “Black Hole. Arte e matericità tra informe e invisibile”, del 2018, e “Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione”, del 2021, la nuova esposizione, visitabile fino al 28 maggio 2023, presenta 80 artisti che hanno compiuto l’impegnativa impresa di guardare oltre la materia suggerendo numerose “riflessioni” sul vuoto.

Quaestio che si pone ab antiquo tanto da essere teorizzata dalla scuola pitagorica e dall’atomismo (Leucippo, Democrito…) che sostenevano la necessità del vuoto come contenitore e causa del movimento, mentre Talete nel VI secolo a.C. aveva negato l’esistenza del vuoto e più tardi Aristotele asseriva che gli spazi vuoti non esistono e che la natura aborrisce il vuoto (horror vacui). I primi uomini sulla terra sgomenti di fronte al cielo stellato per esorcizzare la paura dell’ignoto avevano creato le costellazioni dalle corrispondenze con quanto esistente nella realtà o nel mito.

La questione sull’esistenza del vuoto viene riaperta con Galileo Galilei nei secoli XVI e XVII quando ci si rese conto che, avendo l’aria un peso, si sarebbe potuto creare il vuoto: esperimento poi condotto dal suo allievo Evangelista Torricelli con il famoso tubo, perfezionato da Otto von Guericke con gli emisferi di Magdeburgo, ripreso dalla fisica odierna e poi da Einstein con l’aggiunta del tempo allo spazio, senza parlare della fisica quantistica. Comunque sia, un vuoto anche intellettuale ha creato e genera ansie. Oggi la situazione è capovolta e l’odierna sovrabbondanza di informazioni, immagini, rumori e luci genera un quotidiano “Horror pleni. La (in)civiltà del rumore” (titolo di un volume di Gillo Dorfles, indimenticabile critico d’arte, filosofo e pittore) che fa quasi rimpiangere il suo contrario.

GAMeC, Salto nel vuoto, ph. A. Maniscalco

La mostra di Bergamo – articolata in tre sezioni tematiche: Vuoto, Flusso e Simulazione – si inserisce in un più ampio progetto secondo cui l’arte partendo dalla smaterializzazione della materia si pone in dialogo con filosofia e scienza toccando anche le più recenti interpretazioni delle giovani generazioni e permettendo al visitatore di sperimentare le più attuali creazioni in campo virtuale: una “non realtà” costruita di “non materia” per compiere attraverso l’informatica un reale salto nel “vuoto”. D’altra parte, è da parecchio che si parla di dematerializzazione mentre ora miniaturizzazione e virtualità sono di attualità, anche se gli artisti già dalla diffusione dell’informatica sono stati antesignani al riguardo.

Nella prima sezione, VUOTO, sono presenti artisti delle avanguardie del Novecento: questi si sono cimentati nell’audace impresa di guardare oltre la materia “saltando” oltre i limiti dettati dalla materialità del reale. È stato Yves Klein che nel 1958 ha organizzato la mostra Le vide a compiere il grande passo al riguardo: il visitatore si trovò immerso in un ambiente tutto bianco e senza oggetti, ma non è il nulla concepito da Klein negli scatti del 1960 a Fontenay-aux-Roses dal titolo Un salto nel vuoto del pittore nello spazio (in realtà un fotomontaggio con l’artista sospeso a mezz’aria e a braccia aperte mentre si getta dal cornicione di una casa). Klein è ispiratore del titolo di questo terzo capitolo pur non essendovi presente come lo è stato nel secondo del progetto triennale.

Ed ecco in tale sezione le opere in plexiglass di Regina Cassolo Bracchi, le superfici bianche dipinte con colore a olio misto a polvere di marmo su cui Aiko Miyawaki pone segni  quasi impercettibili, i fogli di plastica ciascuno dei quali fustellati con piccoli tondi ritagliati da Dadamaino (Edoarda Maino) che sovrapponendoli crea micro sfasature, l’emblematico Schermo, dipinto monocromo aggettante di Fabio Mauri, le Estroflessioni con cui Enrico Castellani e Agostino Bonalumi  modificano con punti sporgenti la tela dandole una dimensione scultorea, le Infinity Nets di Yayoi Kusama che le definisce dipinti “senza inizio, fine o centro” per la ripetizione infinita e quasi ipnotica di un modello fino a Ann Veronica Janssens che, cresciuta nelle vivida luce del Congo, ha imparato a discernere le minime variazioni di luce e colori e stupisce con gli effetti ottenuti combinando luce e spazio.

Né è meno intrigante, oltre a essere più vasta, FLUSSO, la sezione successiva che analizza come nella seconda metà del XX secolo si sia verificata una rivoluzione nell’informazione che possiamo far iniziare dal IV millennio a.C. e seguire con estatica meraviglia fino alla nascita e allo sviluppo dell’informatica che garantisce notevoli progressi – non esenti da pericoli – a livello mondiale e uno sviluppo di dati da capogiro tali da creare uno smisurato numero di biblioteche di Exabyte (1018 byte) e poi di Zettabyte (1000 exabyte). L’umanità riuscirà a servirsi di questa nascente “infosfera” non perdendo di vista l’individualità di ciascuno? Uno stimolo straordinario per gli artisti che ispirandosi all’elaborazioni dei dati e delle piattaforme globali e riducendo al minimo la materia hanno creato opere nuove. Materialità non-atomica, bit, pixel, software, output…divengono la nomenclatura di questo mondo nuovo che diverrà una risorsa solo se si continuerà a vivere nel reale.

Picasso, La bouteille de Bass, 1912-1914, Museo del Novecento, Milano, SIAE

Attraverso un dialogo aperto tra primo e secondo Novecento si parte dai precursori come Boccioni che, impressionato dal cubismo di Picasso e Braque (visti a Parigi), propone una nuova grammatica visiva in Studio per Materia (Studio per costruzione orizzontale) e Voglio dare la fusione di una testa con il suo ambiente (Testa + casa + luce), Picasso che in La Bouteille de Bass presenta una situazione da bar secondo una nuova grammatica visiva, František Kupka che nella conturbante La macchia gialla si pone come protagonista d’avanguardia e Balla che con lo splendido Numeri innamorati presenta un’astrazione ispirata ai numeri, soggetto caro ai futuristi e insieme anticipazione del linguaggio digitale.

FRANTISEK KUPKA, La macchia gialla

Tali artisti con le loro opere introducono al “dinamismo percettivo” dell’Arte Programmata e di Fluxus e a lavori degli anni ’60 e ’70 che presentano opere composite quali quelle di Roman Opałka che ha dedicato la vita ai numeri dall’uno all’infinito, di Agnes Martin le cui linee tenui accompagnate da colori delicati inducono alla meditazione, di Lillian F. Schwartz che, dopo avere usato computer e film combinandoli con altri media tecnologici, si forma anche nei tradizionali settori artistici (disegno, acquerello, pittura a olio e pennellata cinese), usa la tecnologia laser come materiale e ne registra con una cinepresa i movimenti proiettati su una parete, poi aggiunge il suono elettronico creando così animazioni sperimentali astratte e di Vera Molnar considerata la prima computer art, in quanto libera la computer grafica dal suo rigore matematico. Sono presenti anche opere recenti di artisti internazionali.

La terza sezione, SIMULAZIONE, propria dell’attuale età dell’informazione, conclude la mostra evidenziando come grazie all’ulteriore sviluppo della diffusione di notizie la realtà sia stata segmentata, quasi vaporizzata in una serie di esperienze nelle quali la materia del reale si trasforma nell’intangibilità del “virtuale”, dimensione altra cui accedere tramite particolari tecnologie immersive: analogiche   come i panorami  e  digitali come i caschi di realtà simulata, poi superate dal progetto “Videoplace”, ambiente concettuale privo di esistenza fisica, che secondo Myron W. Krueger, suo fondatore, può avere applicazioni nell’istruzione, nella psicologia e nella psicoterapia.

Anticipatore di questa nuova grammatica visiva il surrealista René Magritte. In Le grand siècle, forse un ammiccamento ironico alla magnificenza del Seicento, dietro un muro l’uomo magrittiano con bombetta osserva un prato delimitato da alberi con in fondo un nobile palazzo, ma si è spiazzati dal cielo costituito da un enorme soffitto a losanghe, espediente surrealista di scambio tra interno ed esterno quasi a simulare un ambiente virtuale. Richard Estes dipinge le sue scene di vita quotidiana relative alle principali città americane, come in Storefront Reflections Miami, partendo da fotografie e assemblandole in composizioni pittoriche fotorealiste o iperrealiste, che simulano cioè una realtà che non è mai esistita creando un’illusione visiva in campo pittorico. Iperrealista anche Man with Walkman di Duane Hanson che da foto Polaroid crea calchi (in resine di poliestere rinforzate con vetroresina) di persone viventi ricreando il pathos della vita quotidiana della classe operaia americana attraverso la simulazione di gesti abituali.

Richard Estes, Storefront Reflections Miami, 1969, f. A. Maniscalco

Numerose e piacevoli da scoprire le altre opere – da quelle pionieristiche fino alle più recenti – che, in un continuo e diverso gioco alternante tra reale e virtuale, costruiscono suadenti realtà alternative con o senza l’uso di dispositivi tecnologici di realtà virtuale e di quella aumentata.  Da non perdere come esperienza di realtà virtuale quanto creato dai MSHR (Birch Cooper e Brenna Murphy) per lo spazio Zero della GAMeC.

Per approfondire la pluralità di stimoli ricevuti, si consiglia l’utilissimo catalogo (terzo volume della “Trilogia della materia”, GAMeC BOOKS) ricco di informazioni, illuminante su opere che sono il risultato di tecniche complesse – semplicissime, una volta decodificate – e che si conclude con un saggio di Italo Calvino tratto da “Cibernetica e fantasmi”, una sua conferenza del 1967.

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