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«Certo le circostanze non sono favorevoli», cantavano i PGR, «e quando mai! Bisognerebbe… bisognerebbe niente. Bisogna quello che è. Bisogna il presente». Ebbene, le gallerie si attrezzano, non rinunciando a diffondere riflessioni su mostre di valore. E noi con loro. Galleriapiù di Bologna ha confezionato un video esplorativo della mostra di Ivana Spinelli, la loro collaborazione va avanti dai tempi del lavoro Global Pin-Up (2012) e “Contropelo”, a cura di Claudio Musso, è la sua seconda personale.
Come per “Minimum” (di cui avevamo scritto qui), anche questa volta si tratta di un’indagine colta su contenuti testuali di interesse internazionale, in questo caso, sulla letteratura prodotta dalla archeologa e linguista Marija Gimbutas (1921-1994). Le opere sono ispirate alle scoperte rivoluzionarie della studiosa sul linguaggio preistorico di segni e figure all’origine delle successive scritture dell’Occidente. A colpire l’artista, a suo stesso dire, vi è il metodo multidisciplinare che attraverso una lettura dei reperti comparata attraverso l’archeologia, la conoscenza mitologica e del folclore, la linguistica e l’etnologia storica, ha permesso di ricostruire il simbolismo della Dea preindoeuropeo, che come ha scritto Martino Doni: «è significato pettinare la storia contropelo». Da qui il lavoro multiforme di Ivana Spinelli, in esposizione da Galleriapiù.

L’intervista a Ivana Spinelli
Sappiamo che l’iconografia della Grande Dea era sorta dall’osservazione delle leggi naturali governanti. La tua meta-iconografia include il mondo naturale come termine di rapporto imprescindibile per l’arte. Ce lo mostrano tanto La Dea, segno che guarda e resta v^v^v (2017), installazione che vede affiancati l’elemento organico e l’inorganico sullo stesso piano visivo, quanto la serie di tele Testo, rifugio per viventi (2020) e diverse sculture “imbottite” di altrettanti residui naturali.
«L’inevitabilità della natura, quel che siamo. Penso che per migliaia di anni abbiamo concepito la natura in posizione laterale quando non inferiore all’essere umano (vedi Il Postumano di Rosi Braidotti), finché le neuroscienze o altre scienze non ci dimostrano che le intelligenze “altre” rispetto a quella umana non sono inferiori ma semplicemente differenti. Il linguaggio sembra porsi a un livello superiore, etereo, puro ma credo che i segni non possano che essere fisici, prodotti dal corpo, segni che vengono esternati per via di una tensione, una spinta a muoverli, a muoversi, a far uscire dalla propria dimensione qualcosa che riconosciamo e a cui attribuiamo un valore, una sacralità. Pensando a questa corporeità ho pensato al “testo-tessitura”, canvas naturale in cui rifugiare i corpi, le foglie o i rami che stanno tra la vita e la morte. Pensavo anche alla “mancanza di rifugi” di cui parlano Anna Tsing e Donna Haraway; il testo-tessitura te lo porti dietro, come un fagotto, una borsa, uno zig zag pieno di memorie familiari e storiche».

Il progetto Zig Zag Protofilosofia, on going dal 2017, si muove dal disegno alla performance e tra termini contrapposti: organico/inorganico, ma anche analogico/digitale. Raccogli i richiami della società, lavori la materia e l’immateriale per la società stessa. Penso al pacchetto di emojy Zigo Zago Stickers che hai creato per introdurre nelle chat di chiunque l’alfabeto visivo atavico al centro della tua ricerca…sei partita dai quaderni scolastici sui quali hai fatto esercizio ripetitivo-didattico di scrittura, passando dal libro d’artista che ne raccoglie una selezione di pagine. La scrittura sta all’apprendimento, come la ri-scrittura sta alla realizzazione. Qual è il tuo rapporto con forma e ripetizione?
«La forma è spesso il risultato della ripetizione. Ripetere tante volte quei segni serve a evocarne la realtà anche psichica da cui arrivano, è una connessione con qualcosa che va anche al di là del significato diretto che potrebbero avere. Ripetere e masticare e dislocare i segni porta a creare una atmosfera, uno spazio di attenzione dove più che il senso mi interessa il suono, in questa fase mi interessa soprattutto il suono potenziale che potrebbe scaturire dai segni o quello dell’aria che circola sotto e intorno alla Meditation Place, il vuoto, l’assenza di suono. Pausa come contributo necessario alla composizione sonora».

Sulla scorta della lettura che di questo progetto dà il curatore Claudio Musso, quelli messi in campo nelle tue attuali opere sono segni che apparentemente muti, decorativi, appaiono grandemente eloquenti. L’operazione è ri-semantizzare, ri-costruire, farci ri-conoscere il linguaggio della Dea. Dove ci conduce questa possibilità?
«Ricostruire la storia ricollocando punti di vista e reperti che erano stati trascurati od omessi è una necessità continua, negli ultimi decenni è evidente lo sforzo di ricostruire il pensiero femminile, di decolonizzare, portare le voci che erano rimaste escluse. Lo studio della Gimbutas è stato per me una rivelazione: pensare che circa 9mila anni fa esisteva una Europa pressoché paritaria, evoluta con una organizzazione sociale complessa e pacifica durata 3500 anni, è un’immagine potentissima. Perché non partire da lì a pensare alle nostre origini?».
La mostra di Ivana Spinelli da Galleriapiù, in via del Porto, 48, Bologna, chiuderà il 28 marzo. Qui il video.
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