08 novembre 2025

Narrare il patrimonio museale: una conversazione con l’architetto Ico Migliore

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L’architetto e designer Ico Migliore, fondatore con Mara Servetto dello studio Migliore+Servetto, riflette sul futuro della museografia contemporanea in occasione del programma Narrare il patrimonio museale – IV ciclo

Donn’Anna prospetto

Come si progetta un museo nel ventunesimo secolo? Ne abbiamo parlato con Ico Migliore, architetto e designer, fondatore, insieme a Mara Servetto, dello studio Migliore+Servetto, tra i protagonisti della nuova edizione del programma Narrare il patrimonio museale – IV ciclo, organizzato da Fondazione Ezio De Felce.

Il ciclo d’incontri, che riunisce studiosi, progettisti e direttori museali, propone un confronto internazionale sul futuro del museo come spazio narrativo e luogo di trasformazione. Oltre a Migliore, vi partecipano Filippo Demma, direttore dei Parchi Archeologici di Crotone e Sibari; Antonella Huber, docente di Museologia del Contemporaneo all’Università di Bologna; Jose Luis Sancho, storico dell’arte e membro della Direzione Generale del Patrimonio Architettonico di Spagna; Chiara Parisi, direttrice del Centre Pompidou-Metz; Maurizio De Vita, professore ordinario di Restauro e direttore della Scuola di Specializzazione dell’Università di Firenze; e Giovanni Cappelletti, architetto responsabile del progetto di restauro di Palazzo Butera a Palermo.

Ico Migliore, photo Stefano Ferrante

Cominciamo dal suo percorso: quali architetti, designer o pensatori hanno influenzato di più il suo modo di progettare il museo? C’è un riferimento che oggi sente ancora vivo nel suo lavoro?

«Sicuramente Achille Castiglioni, per cui l’allestimento è sempre stato uno strumento principalmente di comunicazione e relazione. Achille è stato mentore e maestro mio e di Mara Servetto. Abbiamo avuto l’opportunità di incontrarlo durante il nostro percorso di studi e, successivamente, di essere chiamati da lui come assistenti al Politecnico di Milano. Abbiamolavorato al suo fianco per molti anni, seguendolo da vicino in studio e nella sua intensa vita professionale.

Poi Franco Albini, per la ricerca di leggerezza: era capace di instaurare un dialogo con l’architettura, con la preesistenza e con l’intorno all’insegna di un segno leggero, ponderato e elegante. I suoi progetti restituivano un forte senso di equilibrio e relazione tra le parti.

Inoltre il cinema è sempre stato un mondo interessante a cui guardare; in termini di regia penso al Terry Gilliam di Monty Python. Si può intendere il progetto quasi come montaggio di sequenze abitate.

Infine, citerei l’artista americano di origine sudcoreana Nam June Paik, padre fondatore della Videoarte e uno dei pionieri nell’uso dei media elettronici come strumento artistico. È per me un riferimento per un uso poetico della tecnologia intesa come oggetto che diventa costruzione di paesaggio».

Migliore+Servetto, The Futurability of Cultural Places, Courtesy of Migliore+Servetto

Quando affronta un nuovo progetto museografico, da dove inizia? Dal luogo, dalla collezione o dal tipo di esperienza che vuole costruire per il visitatore?

«Dal luogo, perché ogni luogo ha una sua drammaturgia che va interpretata e che è parte determinante dell’unicità e del valore finale. Se non si maneggiano tutte le variabili di un progetto, non si riesce a ragionare in modo integrato. Per come affrontiamo il lavoro, non esiste un architetto che non sia anche grafico, non esiste un progettista che non ragioni anche sul tema della percezione acustica, come il suono del camminare su un pavimento, per esempio. Si tratta di progettualità che non possono essere addizionate per parti, ma che devono essere presenti fin da subito.

Poi certo il valore del progetto risiede nella qualità della relazione che si riesce a instaurare con il visitatore, con i contenuti oltre che con il luogo».

In Museum Seed descrive il museo come un “attivatore a lento rilascio” capace di generare cambiamento nel tempo. Ma cosa significa, in termini concreti di progetto, far germogliare un museo dentro un contesto urbano o sociale?

«Significa, prima di tutto, progettare un luogo che offra strumenti di approfondimento e di conoscenza, in grado di coinvolgere pubblici differenti, anche attraverso una componente emotiva.Bisogna prevedere molteplici opzioni e azioni che si possano scegliere di intraprendere.

Dopo l’esperienza, il visitatore deve uscire cambiato, anche in termini di consapevolezza e identità, in questo senso il progetto funge da attivatore a lento rilascio e può avere una ricaduta sociale.Bisogna progettare luoghi che ospitino in un modo diverso. La vera cura è trovare delle modalità capaci di instaurare una relazione tra il visitatore e i contenuti, in grado di innescare questa trasformazione.

Poi in relazione alla città penso anche al ruolo fondamentale che alcuni poli culturali hanno nell’attivazione di alcune zone dormienti della città. La rinascita di certi quartieri è legata all’apertura di alcuni poli culturali, basti citare il Museo Guggenheim che ha trasformato Bilbao da città post-industriale a meta culturale di fama mondiale oppure al Meatpacking District e Chelsea di New York, dove la costruzione dell’High Line e l’apertura della nuova sede del Whitney Museum of American Art hanno trasformato radicalmente una zona nota per macelli e magazzini industriali, in un centro di lusso, moda, design e arte. Questi interventi possono essere potenti driver di trasformazione positiva, purché sappiano mantenere l’anima del quartiere, senza sconfinare nella gentrificazione pura».

Museum Seed si articola in otto punti che delineano quasi una teoria del museo contemporaneo. Se dovesse sceglierne uno come fondamento del suo approccio alla museografia di domani, quale sarebbe e perché?

«L’ultimo capitolo “Museum as Living Organism”, perché il museo deve essere interpretato e concepito quasi come un organismo vivente capace di aggiornarsi continuamente, perché cambiano gli strumenti, gli approcci, i linguaggi e i contesti di riferimento.

Il museo quando si ferma è perduto. Lo spazio culturale deve sapersi adattare e trasformare insieme all’evoluzione culturale e sociale che lo circonda, per mantenere aperto un canale autentico di relazione. Deve saper dialogare, capire, ospitare, come una sorta di nuovo terzo spazio delle città, solo così può essere veramente simbolo di grande democrazia e condivisione».

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