15 aprile 2020

The american way: il MoMA avvia la campagna di licenziamenti, a partire dalla didattica

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Il MoMA licenzia in tronco tutti i dipendenti del dipartimento educativo e non è il solo museo a tagliare il personale. Poche sorprese, è solo il modello americano

AFP PHOTO/Mandel NGAN. Getty Images

Secondo l’agenzia Americans for the Arts, l’impatto dell’emergenza Covid-19 sul mondo dell’arte negli Stati Uniti è economicamente quantificabile in una perdita di 4,5 miliardi di dollari, solo fino a ora. Per avere una idea dell’entità del danno, si consideri che l’arte e la cultura rappresentano il 4,5% del PIL dell’intera nazione, con un giro di 878 miliardi di dollari e un bacino di 5 milioni di posti di lavoro. Che, in queste ultime settimane, si sono drammaticamente ridotti. Terrorizzati dai numeri con il segno meno e dalle previsioni tutt’altro che rosee, i musei americani hanno intrapreso con ferrea decisione la via dei tagli al personale. Stiamo parlando di istituzioni gigantesche, come il Guggenheim di New York, il MOCA e il LACMA di Los Ageles, che aveva investito 750 milioni di dollari per il suo ambizioso piano di ristrutturazione, lo SFMoMA di San Francisco, che ha licenziato 300 impiegati. E anche il MoMA, il museo d’arte moderna e contemporanea più importante e potente al mondo ha dato il via alla sua sanguinosa campagna di licenziamenti. A partire dal dipartimento educativo, il cui staff ha ricevuto l’ultimo stipendio il 30 marzo.

Vero che alcuni – e non tutti – potranno ricevere i vari sussidi di disoccupazione – quando arriveranno, ne scrivevamo anche qui – ma, anche volendo prescindere dall’etica e dal diritto del lavoro che imporrebbe il rispetto di certe garanzie contrattuali, cosa succederà dopo, quando la situazione tornerà alla famigerata normalità? «Tutti gli altri impegni futuri vengono annullati e nessun ulteriore pagamento sarà fatto», si legge in maniera chiara e spietata nella mail inviata a tutti i dipendenti, scaricati da un giorno all’altro. E come se non bastasse, anche quando il museo riaprirà, «passeranno mesi, se non anni, prima di poter tornare al budget e ai livelli operativi necessari per riattivare i servizi di formazione del dipartimento», conclude la lettera. Ma cos’è un museo senza la formazione, senza la didattica? Un contenitore freddo e, in fondo, nemmeno poi tanto utile alla comunità.

La coperta dei licenziamenti del MoMA

Secondo quanto riportato dall’American Alliance of Museums, i musei negli Stati Uniti stanno attualmente perdendo almeno 33 milioni di dollari al giorno. E questo è un dato di fatto ma l’impressione è che i numeri siano un po’ come la famigerata coperta che, se tirata, svela altri numeri: il patrimonio del MoMA ammonta a 1 miliardo di dollari, secondo quanto riportato nell’ultima dichiarazione dei redditi (che trovate ben compilata qui). Insomma, non sembra certo un museo con l’acqua alla gola. Assetato non può dirsi nemmeno il direttore del MoMA Glenn D. Lowry, il cui stipendio vale 2,2 milioni di dollari circa, bonus più, bonus meno. Questo, però, prima dell’emergenza Covid-19.

Il museo era rimasto eccezionalmente chiuso per quattro mesi anche nel 2019, per consentire il completamento dei lavori di ristrutturazione, un progetto da 400 milioni di dollari. Quattro mesi di porte chiuse non sono pochi per un museo che, ogni anno, guadagna circa 30 milioni di dollari per i biglietti, per una incidenza sul bilancio di circa il 14%. Ma in quel caso la chiusura fu ben affrontata anche grazie a una munifica donazione di 200 milioni di dollari proveniente dall’estate di David Rockefeller, derivata dalla vendita di parte della collezione in asta da Christie’s. Un cerchio perfetto che, con tutti quei milioni in ballo, fa girare un po’ la testa ma che, soprattutto, questa volta non si è chiuso.

E poi non dimentichiamo che chairman del MoMA è Leon David Black, CEO del gigante della private equity Apollo Global Management, che gestisce oltre 300 miliardi di dollari. Già, lo stesso Leon David Black contro la cui filantropia tossica si è scagliato a più riprese Michael Rakowitz. Quel Black che investe in società di contractors, mercenari, armi e prigioni. Ma questi sono altri affari che, in fondo, c’entrano con museo solo in relazione all’ennesimo investimento, al perseguimento spietato del profitto. E quando, in futuro, prenderemo il glorioso modello americano di gestione dei musei come esempio per le nostre strategie e le nostre politiche culturali, ricordiamoci di questi tempi.

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