25 agosto 2020

Dall’Arianna in Puglia al Don Giovanni in taxi: l’Italia dei Festival Musicali

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Tra il sud e Marche, in spazi all’aperto rianimati, ritrovando il filo interrotto con lo spettacolo: due tappe per due pietre miliari della scena

Festival della Valle d'Itria, Arianna a Nasso, ph. Clarissa Lapolla
Festival della Valle d'Itria, Arianna a Nasso, ph. Clarissa Lapolla

L’abbiam capito: il Covid 19 è imprevedibile. Così, quando in marzo e aprile scorsi, sentendoci ripetere come un mantra #Iorestoacasa si pensava che avremmo passato mesi e mesi blindati, vivendo le tragedie su di noi o intorno a noi, l’ultimo dei problemi era quello di occuparci di opere e concerti, anche se eravamo angosciati per i lavoratori che di quello vivono. Poi un giorno in tv qualcuno dice che il virus s’è indebolito, e allora i reggitori della “musica dal vivo” si attivano per rendere reale il riavvicinamento del pubblico a un palcoscenico. A piccoli passi, prima la musica da camera, poi gli archi, con qualche fiato, fino all’opera. Certo, nel rispetto delle normative, e prima di tutto sfruttando gli spazi en plein air, a cominciare da quelli tradizionalmente deputati. Il Sud, forse perché meno colpito dal caos e dallo stillicidio di vite umane perdute, forse perché più naturalmente dotato di spazi all’aperto, s’è rianimato di buon’ora, ritrovando il filo interrotto. Per ritrovare il filo è proprio il titolo dato a Martina Franca, gioiello barocco delle Murge tarantine, all’edizione 46 di un festival, quello della Valle d’Itria, che negli anni s’è fatto sempre più punto di riferimento per la riscoperta di rarità del teatro musicale, in particolare della scuola napoletana sei-settecentesca, grazie anche alla presenza della Fondazione Paolo Grassi, intitolata al genius loci che al festival aveva dato il soffio vitale. Per questa recuperata edizione il “filo ritrovato” è quello d’Arianna, dell’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss. Anzi, Arianna a Nasso, visto che l’edizione proposta si avvaleva di una traduzione italiana dell’originale di Hoffmansthal. Scelta curiosamente “inattuale”: da tempo vige infatti la legge non detta dell’opera il lingua originale. Forse per rinverdire la passata pratica di affidare la versione in italiano a figure particolarmente competenti in materia: vengono in mente le traduzioni ritmiche di Fedele D’Amico. Qui l’autorità era Quirino Principe, coadiuvato da Valeria Zaurino.

Festival della Valle d'Itria, Arianna a Nasso, ph. Clarissa Lapolla
Festival della Valle d’Itria, Arianna a Nasso, ph. Clarissa Lapolla

Arianna e il Borghese Gentiluomo a Martina Franca

In origine accoppiati (siamo nel 1912), poi, causa insuccessi e revisioni, destinati a vivere di vita propria, Il Borghese gentiluomo (rilettura della commedia di Molière) e Arianna per l’occasione sono stati riuniti, sia pur in due serate. Della coppia di spettacoli s’è vista l’opera, la cui partitura merita il viaggio in treno fino a Bari e l’ulteriore ora di tragitto per Martina. Fatica premiata se a dirigerla è Fabio Luisi. Che siano in teatro Strauss Verdi o Reimann, in concerto Bruckner Mahler o Sostakovich (ascoltato nei giorni scorsi in radio ma dal vivo con membri dell’OSN Rai), Luisi rivela sempre grande lucidità di lettura, quindi grande rispetto per il pensiero dell’autore, e insieme impeccabile senso pratico e gusto del Musizieren, ingredienti che stanno alla base delle dinamiche, spesso complesse, del far musica. È difficile dipanare una scrittura strumentale, nella sua intima essenza, squisitamente cameristica, nel magnifico cortile del Palazzo Ducale, con un orchestra, qui del Petruzzelli di Bari, disposta per leggii distanziati, e a farlo governando gli equilibri di voci che si muovono all’aperto. Luisi è stato ammirevole nel risolvere il tutto e regalare uno Strauss di rara bellezza. Alla prima del 21 luglio l’Arianna abbandonata sull’isola di Nasso da Teseo che confonde con Bacco e che è invitata da Zerbinetta a godersi il carpe diem è in fondo un personaggio moderatamente patetico che chiede una vocalità dello stesso tipo. Carmela Remigio lo sa, e interpreta il ruolo con grande sensibilità. Applauditissima la Zerbinetta di Jessica Pratt, che però dava l’impressione di muoversi a ruota libera intorno, più che dentro, al personaggio. Chi scrive è cresciuto nel ricordo di questo ruolo con una Edita Gruberova in stato di grazia (alla Scala, metà anni Ottanta, Sawallisch sul podio): era un’altra cosa. Buone le prove del tenore Piero Pretti nei panni di Bacco, e delle maschere (Prato, Sodolsky, Di Lieto, Amati), squilibrate, ma solo all’inizio, le ninfe ed Eco (Massaro, Pitts, Battistelli). La regia di Walter Pagliaro, fors’anche causa Covid, rimane garbatamente sullo sfondo. È un po’, ribaltato, il classico rapporto fra immagine e musica da film: quando non si sente vuol dire che va bene. Qui la discrezione del coté scenico rispetta la bellezza della partitura straussiana. A parte forse le attoriali schermaglie d’apertura fra Dorante e Dorimène. Scene di Gianni Carluccio, eleganti costumi di Giuseppe Palella.

Don Giovanni, MOF2020, foto: Tabocchini Zanconi
Don Giovanni, MOF2020, foto: Tabocchini Zanconi

Don Giovanni a Macerata

Risalendo lo stivale via terra, un Don Giovanni allo Sferisterio di Macerata, enorme spazio aperto, unico per caratteristiche architettoniche e acustiche. Anche qui, i reggitori son riusciti in curva a salvare l’edizione, con la versione scenica del titolo mozartiano e quella da concerto del Il Trovatore. Il primo pensiero è per la scena: con un palco lungo 90 metri doveva essere d’impatto. E lo è stato. Due automobili, da un lato un elegante Suv per il Commendatore, dall’altro un taxi giallo per gli altri. L’auto come veicolo in senso sia stretto che metaforico, ovvero sia come mezzo di locomozione, vettore per l’azione di cantanti/autisti, che, parcheggiate, come singolari quinte mobili. Metaforico anche per ché multifunzione: casinetto per l’appartarsi di Giovanni e Zerlina, pedana per le esternazioni amorose del Deh, vieni alla finestra, spogliatoio, trincea, ecc. Eppure, al di là del barocco sfruttamento di spazi ed effetti (pistole, immagini di donne proiettate sul muro dello Sferisterio – Videomaker D-Wok), la regia è ricca di sfumature, e su questo Davide Livermore non delude mai: per esempio Donna Elvira (Valentina Mastrangelo) moltiplicata in femmine lascive, che però non perde quel dato tristanzuolo che in un punto si tinge di calda penombra alla De la Tour (bella introduzione a Mi tradì quell’alma ingrata). Oppure il Toccami qua di Zerlina con distanziamento, come al tempo del Covid. C’è anche qualche forzatura: un’ombra/fantasma del corpo appare a Don Giovanni come incubo e ferma la musica. No.
Fra le voci, il 26 luglio anzitutto la Donna Anna di Karen Gardeazabal, voce sensuale il giusto per la figura più ambigua dell’opera, tempi e ritmi impeccabili. A volte non altrettanto il Leporello di Tommaso Barea, comunque convincente. Anche Mattia Olivieri nel ruolo del titolo convince sia in voce che in agilità, è non per forza ormonale, meglio così. Suona bene la Filarmonica Marchigiana, con il suo ottimo Direttore musicale Francesco Lanzillotta che ha il polso giusto per quest’opera, anche se perlomeno quella sera a volte (per es. Fuggi crudele, fuggi o Fin c’han dal vino) partiva col turbo per aggiustare il tiro. 800 posti occupati su 3000 teorici: lo Sferisterio supera la prova Covid alla grande. Speriamo non resti il solo.

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