11 giugno 2025

Teatro musicale, oggi: il Nome della Rosa alla Scala e il sequel di Tosca a Reggio

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Novità dalla scena lirica contemporanea: alla Scala, il debutto de Il nome della rosa di Francesco Filidei, a Reggio Emilia il monologo postumo di Floria Tosca firmato da Virginia Guastella

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Due novità di teatro musicale sull’asse Milano-Reggio Emilia.

Alla Scala, Il nome della rosa, adattamento del romanzo di Umberto Eco, musica di Francesco Filidei. Opera di nome e di fatto. Cinquantenne pisano, produzione già cospicua, Filidei è al momento autore italiano sotto i riflettori, tanto che il Festival Milano Musica, cogliendo l’occasione della prestigiosa commande, gli dedica l’edizione 2025. L’occasione è data anche dai 45 anni dalla prima edizione del “long seller” di Eco, secondo il quale il libro stesso «Assumeva una struttura da melodramma buffo». Esplicito invito colto al volo da Filidei, che sulla stratificazione di stili e scritture costruisce la sua poetica e che scrive: «La scelta del soggetto è nata dalla volontà di portare avanti la tradizione melodrammatica italiana in chiave moderna, nella convinzione che non si debba rinunciare alla profondità e all’ambiguità di un lavoro se esso presenta un primo livello di lettura accessibile».

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

La vicenda è nota, allora diciamo della similarità di approccio dei due differenti generi, letterario e musicale. Come Eco nel romanzo, qui Filidei individua più livelli di lettura. Le dotte riflessioni del testo si trasformano musicalmente in citazioni estratte dal repertorio vocale e corale antico, come Iam Lucis orto sidere e il celebre Dies Irae, o in raffinati richiami al melodramma ottocentesco. La lingua espressiva del lavoro sembra alludere a un polistilismo che in realtà è esso stesso lingua del suo autore, dal momento che i richiami ad “altro” sono funzionali alle strutture narrative dell’opera.

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Le congetture di Guglielmo, Adso e compagni si fanno nel libretto, scritto con Stefano Busellato, gesti assertivi se non interiezioni (il Ta-Ta-Ta della statua del Commendatore dal Don Giovanni mozartiano). Si arriva fino alla canzone Pop: l’ingresso di Remigio da Varagine, con l’appoggiatura del Mi su pedale di Do in secondo rivolto suona tanto un ammicco al conterraneo Andrea Bocelli.

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

La narrazione tiene, retta da un impianto formale basato su simmetrie numeriche “in forma di rosa”. Verso la metà del primo atto si percepisce un momento di stanca ma poi il secondo atto scorre, fluido e coinvolgente. La tecnica compositiva del contrappunto (Filidei è anche brillante organista) serve da trasposizione musicale del labirinto del romanzo, nell’albescente scena di Paolo Fantin per la regia, composta, singolarmente austera, di Damiano Michieletto. La strumentazione “acustica”, cioè priva di suoni elettronici, è rutilante ma consona all’idea di Filidei, suona come sottofondo per esaltare “arnesi sonori” prodotti persino con utensili del quotidiano: la sterminata santabarbara delle percussioni fa tracimare in platea l’orchestra sapientemente governata da Ingo Metzmacher, l’uso delle tecniche estese sugli strumenti viene utile come l’apprendistato con il maestro Sciarrino ma la personalità originale dell’allievo è innegabile.

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Vero è altresì che all’originalità della scrittura strumentale non corrisponde quella vocale e corale: il declamato viaggia fra Verdi e Puccini, nulla di nuovo dunque, a dimostrare che il comodo adagiarsi sulla tradizione operistica paga ancora in termini di comunicazione. Alla gestualità vocale “in modo antico” rimanda il ricorso all’en travesti – come voci femminili (il mezzosoprano Kate Lindsay nel giovane Adso) e ben tre controtenori.

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Il pubblico gradisce, il successo è garantito e si suppone che lo sarà anche al Teatro Carlo Felice di Genova, dove lo spettacolo sarà ripreso unitamente all’Opéra National de Paris, che con la Scala e Genova firma la coproduzione.

Il nome della rosa, 2025, ph. Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

My name is Floria

Da Milano al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, ovvero dal Nome della Rosa di un pucciniano Filidei a una Tosca non di Puccini ma di Virginia Guastella. E neppure una Tosca, ma una Floria. La quarantaseienne compositrice palermitana, che firma le parole per la sua musica frullando Sardou (il librettista del capolavoro pucciniano) con Giacosa/Illica, Shelley e Keats, in My name is Floria parte da una brillante idea: immaginare cosa potrebbe succedere alla celebre eroina, amante del pittore Cavaradossi subito dopo l’ancor più celebre tuffo da Castel Sant’Angelo. Guastella ci orienta verso un taglio decisamente introspettivo: il lavoro vuol rappresentare o evocare «Una condizione di trauma con una storia da raccontare, una storia…di cui grossa parte di noi è stata spettatrice partecipe».

My Name is Floria, ph. Luca Del Pia
My Name is Floria, ph. Luca Del Pia

Ancora una volta alla base del comporre un dramma musicale sta il racconto della memoria, stavolta non epopea ma frammenti di rimemorazione immaginati nello stato del rigor mortis. In effetti colpisce l’avvio, sia all’ascolto che alla visione. A partire dalla ricerca del suono: «Tutto quello che intercettavo come materiale sonoro altro rispetto al linguaggio strettamente musicale è stato al centro della mia indagine», scrive sempre l’autrice, che fa dialogare questo materiale “altro” con echi neomodali, sapori di un’antichità qui non documentale, ricostruita, come in Filidei, ma fratta, si direbbe, dato il contesto, in decomposizione.

My Name is Floria, ph. Luca Del Pia
My Name is Floria, ph. Luca Del Pia

L’immersione nell’asepsi di un ambiente cromatico che va dal celeste scuro al blu, il nudo cadavere di Floria steso su una barella mortuaria, uno schermo che proietta dettagli ingigantiti di quella nudità, vaghi accenni a un esame autoptico, il corpo osservato e in dialogo cantato con un quartetto vocale. Ben pensato, ben scritto, e ottimamente interpretato dal soprano Maria Eleonora Caminada, il lento, faticoso “sgranchirsi” le membra e la voce in una lallazione enfatizzata dal trattamento elettronico del suono, a sua volta impastato il giusto con i timbri acustici degli strumenti. Tutto prometteva bene per il prosieguo, ma dopo aver prodotto un’attesa cattivante si sarebbe desiderata una conclusione all’altezza.

Invece il finale “a voce piena”, letto come un retour à la vie, se non consolatorio, suona scontato, ma soprattutto formalmente e drammaturgicamente irrisolto. Scelta legittima dell’autrice. Restava però la voglia di andare avanti a vedere, ascoltare diversamente.

My Name is Floria, ph. Luca Del Pia

Nel complesso è parso ottimo il lavoro del team creativo Fanny & Alexander, con regia scene luci e video di Luigi Noah De Angelis, che ci propone di pensare il lavoro come un “sequel” di Tosca, e costumi di Chiara Lagani, multimedia di Mescalin e Perin, Tempo Reale per regia del suono e live electronics, anche nel rapporto con l’Icarus Ensemble a pieno organico e qui diretto da Marco Angius.

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