10 febbraio 2020

Tre stazioni per la Tosca

di

Dalla Scala di Milano, all'Opera di Roma al San Carlo di Napoli, due mesi di speciali attenzioni per il capolavoro di Puccini, sulle scene di Mimmo Paladino e dello studio Giò Forma

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Fra gli scorsi dicembre e gennaio Tosca di Giacomo Puccini è stata al centro di speciali attenzioni da parte di alcuni teatri italiani. Anzitutto ha aperto la stagione d’opera del Teatro alla Scala, quindi è riapparsa all’Opera di Roma nell’allestimento della prima assoluta avvenuta proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900, quindi a Napoli, nuova produzione del Teatro di San Carlo. Ho seguito la prima e l’ultima delle tre stazioni.

Alla Scala, di cui è Direttore musicale, Riccardo Chailly sta portando avanti un progetto artistico e culturale ambizioso, la riproposta, anno dopo anno, dei capolavori pucciniani aggiornati alla luce di novità compositive e musicologiche. Dopo la rappresentazione di Fanciulla del West nell’orchestrazione originale e quelle di Madama Butterfly e Manon Lescaut nelle edizioni critiche di Roger Parker, tutte precedute dalla presentazione nel 2015 di Turandot con il finale di Luciano Berio, è toccato ora a Tosca, che viene proposta con modifiche importanti (per esempio del Te Deum che chiude il I° Atto, della morte di Scarpia, o la stessa conclusione dell’opera), sempre frutto del lavoro di Parker per Casa Ricordi.

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TOSCA Anna Netrebko, CAVARADOSSI Francesco Meli, SCARPIA Luca Salsi, credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Un provvidenziale approssimarsi allo spirito primigenio del comporre pucciniano, di cui questa produzione è ulteriore testimonianza e che fa di Chailly oggi interprete pucciniano di riferimento. Il suo sempre più consapevole lavoro sulle produzioni precedenti, a sua volta da sommare alla frequentazione dei decenni passati, lo ha portato a sancire (e a porgere un pubblico che ora sa apprezzare) un Puccini definitivamente sgravato dai cascami di certa tradizione, d’un “vecchio-stile” che per troppo tempo s’è giustificato in nome di un’associazione del grande maestro lucchese alla scuola verista. Associazione che in senso critico e con l’andar del tempo è sempre più inadeguata a inquadrarne la produzione, insufficiente a comprenderne a fondo la complessità. Nei dettagli della partitura, l’orchestra pucciniana della Tosca di Chailly suona con un amalgama e un nitore di alta fattura. Naturalmente ciò è anche frutto di familiarità fra Chailly e la sua orchestra della Scala, ma il risultato non sarebbe tale se non vi fosse alle spalle uno studio storicamente avvertito, profondamente sentito. Chailly da tempo ha stretto con Davide Livermore un sodalizio artistico, e Livermore a sua volta si appoggia su un fidato gruppo di lavoro: il trio Giò Forma per le scene, Gianluca Falaschi i costumi, l’innovativo apparato visuale di Antonio Castro e D-WOK. Ne nasce uno spettacolo certo non tradizionale, ma dal segno ben chiaro. I grandi spostamenti di arredi scenici del primo atto trovano un perché nel secondo atto, in particolare alla luce dell’asse perpendicolare che disegna lo spazio fra la scena di Palazzo Farnese, la sala di Scarpia e il dialogo con Tosca sopra, e la stanza di tortura di Cavaradossi sotto, rivelata da una sopraelevazione del sottopalco (anche se in realtà all’inizio, celata alla vista di Tosca – e del pubblico – la tortura era immaginata in una sala laterale a quella di Scarpia). Giovane madrilena, Saioa Hernández ascoltata il 5 gennaio è una Floria Tosca che non sfigura di fronte alla più celebre Anna Netrebko, la quale aveva inaugurato, ma poi, indisposta, ha rinunciato a due recite coperte proprio dalla Hernández, già prevista per le repliche a seguire. Il Cavaradossi di Francesco Meli ha voce squillante ed ormai esperta nel gestire respiri e agogica pucciniani. Bella anche la prova di Luca Salsi, Scarpia sontuoso e inquietante più che malvagio e laido nel ricorso a gesti e simboli religiosi.

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Tosca, ph Francesco Squeglia

“E avanti a lui tremava tutta Castel Volturno” può essere la silloge registica della Tosca vista al San Carlo di Napoli; ma limitarsi a sostituire la Roma del libretto con la cittadina campana nota per la malavita per sintetizzare il lavoro di Edoardo De Angelis sarebbe ingeneroso nei confronti di questo regista al debutto operistico con un titolo che segue la cifra di precedenti suoi esiti cinematografici. In realtà, pur seguendo un’ambientazione connotata localmente, il taglio “camorristico” con Scarpia come “masto” e Spoletta e Sciarrone guappi, non guasta affatto. Anche se ha “schifato” – si direbbe a Napoli – la platea, almeno la sera del 28 gennaio, laddove il plotone della finta “falsa” esecuzione di Cavaradossi (buona la prova di Fabio Sartori) era sostituito da spari a bruciapelo in stile Gomorra. Tutti d’accordo invece sull’impianto scenico di Mimmo Paladino, suggestivo nel terzo atto laddove, grazie al suo segno pittorico, davvero “lucean le stelle”. Carmen Giannattasio vestiva il ruolo eponimo, misurata in scena e in voce, ma ricca di sfumature, di piccoli gesti suggeriti o assecondati dal regista. Piaciuta lei, meno lo Scarpia di Enkbat Amartuvshin: impari – a ripensarci – il confronto con Salsi. Donato Renzetti sul podio governava il tutto con sapienza antica e sensibilità di profondo interprete pucciniano.

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