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Raccontare le storie dimenticate attraverso la fotografia. Intervista al direttore de Les Rencontres d’Arles
Personaggi

La fotografia può essere la misura del mondo? A Les Rencontres de la photographie ad Arles 2025 lo hanno messo in pratica dando luce a esistenze e situazioni politiche e sociali di solito in ombra. Con le Imagines indocils – Disobedients Images che promette nel titolo questo festival si è posto come obiettivo di essere inclusivo, rispettando coerentemente l’etimologia della parola, perché ha dato un palcoscenico alle “minoranze”: popoli che tengono viva la loro cultura che è stata oppressa, comunità LGBTQ+, storie personali di liberazione e grande spazio al lavoro delle donne fotografe. E non si tratta di reportage: la fedele rappresentazione del reale non è contemplata, ma ci sono infiniti percorsi soggettivi di ricerca sull’immagine che dichiarano che una nuova estetica esiste. Basta andarla a cercare. E non è la sola. Assaporiamo e capiamo questa, aspettando le prossime.

L’edizione di quest’anno del festival, il quinto diretto da lei, è inclusivo. È d’accordo con questo aggettivo? Crede che sia fondamentale in questo momento storico esserlo?
«Si certo. Sono partito dal voler dare attenzione alla fotografia delle donne. Molte fotografe i cui lavori vedrete qui venivano spesso ad Arles per il festival ma non hanno mai avuto una mostra. Tra le tante, adesso ha finalmente una esposizione Erica Lennard, una professionista con una storia di rilievo con molto capitoli diversi, scritti anche con la fotografia per la moda. (Women, Sisters è un lavoro sotto il segno della sorellanza, nda). Ma soprattutto credo che non sia corretto pensare che si non si debba tenere conto della differenza tra la fotografia delle donne e quella degli uomini, ribadendo il concetto che l’unico criterio sia la qualità, come mi disse una curatrice del festival anni fa. Perché il lavoro delle fotografe ha sempre avuto meno possibilità di farsi conoscere».
Quali sono gli altri temi presenti in questa edizione?
«Un altro tema riguarda la “diversità” nel mondo. Abbiamo ospite l’Australia in Place de la Republique, la mostra On country: photography from Australia, allestita da un curatore che ha un background autoctono. Un lavoro inclusivo sul territorio verso la diversità e le culture dei popoli indigeni, in una visione di pre-colonialismo. Lo stesso vale per il Brasile».
In che modo?
«In Francia ora è in corso la “Brasilian season” è iniziata in aprile e dura sei mesi. A questo proposito abbiamo, all’interno del festival, quattro esposizioni. Una di questa è molto potente: con il titolo Ancestral Futures, ospita artisti che arrivano da minoranze, con una storia indigena, da comunità afro-brasiliane, da comunità LGBTQ+. Abbiamo deciso di dare loro spazio poiché sono sempre state lontane da palcoscenici ufficiali. Non hanno avuto l’opportunità di far conoscere la propria storia, anche artisticamente».

La fotografia è ancora oggi allora un atto politico?
«Sì, certo. Lo è moltissimo. Io continuo a ripetere che la fotografia è resistenza. È facile sentire dire che l’estetica è la bellezza, ma se si va nel profondo c’è molto di più. Ci sono nuove prospettive. Come le foto di Maree Clarck, Ancestral Memories, fotografa australiana che rilegge la cultura aborigena con uno stile della fotografia contemporanea, non documentale, né da reportage. È una figura fondamentale nel recupero dell’arte e delle pratiche culturali aborigene dell’Australia sud-orientale e fa rinascere e condivide elementi della cultura aborigena andati perduti, o celati a causa della colonizzazione. Il tema della decolonizzazione attraversa il festival: noi abbiamo spesso visto la storia da un solo punto di vista, adesso c’è finalmente la possibilità di vedere l’altro lato della questione».

Questo festival dialoga con il tempo: molte mostre sono dedicate al passato ricordando figure importanti della fotografia. Ma altre affrontano anche storie personali come Diana Markosian, con Families Stories. Accoglie quindi la “storia” nelle diverse forme e si apre al presente e al futuro anche con lavori legati all’intelligenza artificiale. Quanto crede sia importante per la fotografia adesso?
«Sono convinto che lo sia moltissimo perché un artista può lavorare sul passato che non è mai stato documentato perché non c’era la macchina fotografica o altri mezzi. L’Ai ci permette di avere la “missing history”, la storia che non è entrata nella tradizione ufficiale».

Father
2025-MARK-01
Diana Markosian. The Cut Out, Father series, 2014-2024.
Courtesy of the artist.
Può farci un esempio?
«Le immagini della fotografa brasiliana Mayara Ferrao, che ha raffigurato storie d’amore lesbiche di ex schiave nere nel contesto di un XIX secolo immaginario in Ancestral Futures, sono un fatto che a quell’epoca in cui sarebbe stato inaccettabile. Eppure esisteva. Ma il curatore Thyago Nogueira anche ha anche utilizzato l’intelligenza artificiale per trasformare un corpus di testi e immagini in fotografie “reali”, dando di fatto vita ad archivi inesistenti. L’Ai è utile anche per immaginare come il nostro presente avrebbe potuto avere un passato differente. Un esempio per tutti: se il colonialismo non ci fosse stato, come sarebbe potuto essere il nostro mondo? Si può ricreare la storia…».

Les rencontres des Arles 2025 sono un universo complesso e stratificato dove convivono Nan Goldin (un suo nuovo progetto Stendhal Syndrome) e Yves Saint Laurent. Come mai?
«Sembrano agli opposti, ma si occupano di corpo e relazioni esplorando i concetti di genere, normalità e comunità. Si tratta di una ricerca di bellezza per entrambi. Un tracciato in cui hanno realizzato una sorta di rivoluzione».















la solita pappa lgbt*