13 dicembre 2016

Cosa resta dell’India?

 
Il MAST chiude l’anno presentando l'ultima acquisizione: le serie "Museum Machines" dell’atipica fotografa Dayanita Singh, un nucleo di quasi trecento immagini

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Dalla sua apertura la linea del MAST è stata chiara: indagare, approfondire e sviluppare la complessa rete della fotografia industriale, attraverso i suoi epigoni e i suoi protagonisti. Della complessità del mondo della produzione la mostra in corso (fino all’otto gennaio 2017) indaga, attraverso l’originale lente della fotografa Dayanita Singh, la visione di una nazione che non è solo folklore e devozione, dove i soggetti sono svestiti degli abiti tradizionali e inseriti all’interno del sistema tissutale del lavoro e dove le factory presentano le medesime caratteristiche delle occidentali.  
Dayanita Singh, internazionalmente riconosciuta come fotografa sui generis, sceglie infatti – in controtendenza rispetto ai suoi colleghi – sin dalle origini una prospettiva squisitamente personale preferendo ad esempio gli interni altoborghesi indiani dai pavimenti molati e ricchi arredi, in luogo di una fotografia di denuncia alla povertà, invece di una spiritualità che a volte si rivela posticcia e stereotipata e che nelle sue immagini è risolta solo a livello meta-testuale, nell’ impercettibile aura bloccata nello scatto. 
Di questi risvolti inaspettati, di questa resa formale elegante e certamente documentaristica, la mostra presentata traccia delle linee di indagine molto chiare, complice anche l’allestimento pulito e minimale dove le cromie neutrali degli ambienti ben si sposano ai blu cobalto, ai bianchi lattiginosi e ai neri cenerini delle serie della Singh. 
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Il MAST presenta un nucleo di quasi trecento immagini frutto di una recente acquisizione, in un percorso che si articola al primo piano intorno ai temi, tra loro interconnessi, di: Museum of Machines, Museum of Industrial Kitchen, Office Museum, Museum of Printing Machines, Museum of Men e File Museum; al livello 0 della Photo Gallery il MAST presenta Archives e Factories, due proiezioni di altre immagini di Dayanita Singh dedicate rispettivamente agli archivi e alle fabbriche, e con l’installazione del Museum of Chance
Una esposizione organica e ben strutturata certamente che permette allo spettatore di posare lo sguardo ora su un ritratto ora su una stanza inanimata cogliendo in tutto il percorso un certo dinamismo, una sorta di movimento congenito delle immagini nel tempo verso la storia che le ha generate. 
Due ulteriori elementi di novità che la distinguono sia dai connazionali ma anche dallo stile dei precedenti fotografi ospitati sono: l’attenzione dedicata agli archivi nella serie File Museum e la connotazione di Museo che essa riserva alle sue serie fotografiche. 
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Nella serie File Museum l’artista ritrae l’India processuale, quella fatta da dettati di regole, indicazioni legislative che indaga i metodi e le forme attraverso i quali si formano e si conservano gli archivi: sono interni polverosi e abbandonati, quasi non luoghi.  In questi ambienti si nota con evidenza il fantasma dell’è stato eppure pare altrettanto imperante il presente aleggiare della volontà dell’uomo che ha usato l’archivio come strumento per regalare al futuro una memoria. Lontani anni luce dagli asettici ambienti dei moderni database di conservazione delle informazioni, queste cartelle restano materia organica, faldoni cartacei sottoposti al logorio del tempo che li decompone, agendo sulla tavola inerte della loro superficie.
Pur privi di lavoratori al loro interno questi spazi conservano l’inquietante ricordo dell’azione umana di quelli che il curatore Urs Sthael definisce “i guardiani della latenza”.
Il secondo elemento invece si potrebbe definire quasi un intervento para-artistico che tocca il courus della museologia e si interroga su quale sia il differenziale tra una serie fotografica e una esposizione museale. Non senza ironia ma anzi dotata di un certo pragmatismo affine ad alcune soluzioni informali espresse anche nella stessa Bologna (basti pensare alle risultanti degli Street Artist che trasformano la città in un grande museo a cielo aperto o la soluzione adottata da Chiara Pergola nel 2009 – il Musée de l’OHM – ospitato in permanente al Museo Civico di Arte Antica) la Singh indica la sua esposizione come museo ed è proprio attraverso il suo linguaggio che l’esposizione si colloca entro il gradiente del contenitore museale. 
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A questo fine la Singh inserisce degli elementi mobili, spesso paraventi in legno adottati come pareti museali da presentare al pubblico. Un museo mobile che perde la sua immota ieraticità e che contemporaneamente – dice il curatore della mostra Urs Stahel permette una fusione tra i generi: i libri diventano mostre, le mostre libri, gli album a fisarmonica si trasformano in testi, le pareti pieghevoli in scansioni spaziali. 
Il MAST centra con Dayanita Singh – reduce da alcune importanti esposizioni nazionali e internazionali tra cui: l’Art Institute di Chicago, la Hayward Gallery di Londra, il Museum für Moderne Kunst di Francoforte sul Meno, il Kiran Nadar Museum of Art di New Delhi, nel 2011 e nel 2013 alla Biennale di Venezia e la Fundación Mapfre di Madrid – un’ interessante esposizione che arricchisce l’offerta culturale del complesso dell’imprenditrice Isabella Seràgnoli aprendo una fuga prospettica che, dal nucleo d’indagine del rapporto uomo – macchina approfondisce sia l’indagine psicologica del lavoratore all’interno della fabbrica ma anche l’interrogativo di cosa con il progresso industriale ci stiamo lasciando alle spalle. 
Paola Pluchino

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