08 giugno 2012

Il silenzio dei colori puri

 
Un corpus di opere eterogenee e originali, dove nonostante la sintesi non v'è traccia di Minimalismo. Dove il colore pieno non rappresenta rimandi a estetiche “color field” e dove le polaroid divengono un viaggio astratto sul limite. È la retrospettiva di Massimo Antonaci, “Ipotenusa”, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Da interagire con il rigore di chi ha il coraggio di farsi travolgere dall'energia dell'esperienza [di Matteo Bergamini]

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«L’alchimia è un processo di purificazione interiore per arrivare alla comprensione di se stessi. Non c’è niente di assoluto in questo». Con queste parole Massimo Antonaci, in una lunga conversazione con Mario Diacono, ci offre la chiave per una lettura della sua retrospettiva in mostra, fino al prossimo 31 luglio, negli spazi della Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Tre serie di lavori, tre esposizioni in una.

Si parte dal ciclo “Dal nero alla trasparenza e viceversa”, una panoramica dell’attività pittorica dell’artista (natali in Puglia, ma di stanza a New York dagli anni Novanta) durante gli anni Ottanta, si attraversa “Cammino dentro un corpo solo. Da est a ovest 33 stazioni in terra straniera”, 33 composizioni (60×60 centimetri l’una) realizzate con polaroid da Antonaci durante il cammino di Santiago, quando aveva 33 anni, per arrivare a “Opus”, l’ultimo progetto del 2011, dove su grandi fogli di papiro sono riportati codici, attraverso il colore a olio, che identificano una serie di forme che anche in questo caso sono riconducibili ai principi del mondo, all’energia: il cerchio, il serpente, “stone” e porte alchemiche.
Non c’è un modo particolare per avvicinare il lavoro di Antonaci, che non ama molto parlarne: è necessario il silenzio, è indispensabile pensare all’idea di un raggiungimento di purezza. Così come sono puri, brillantissimi, i colori che compongono il ciclo “Dal nero alla trasparenza”, dove lo scuro può raccontare di una confusione che si scopre anche essere un passaggio biografico, una descrizione dello stato dell’arte e del salto, nel buio, di chi si appresta a seguirla. 

Le grandi sale bianche della Collezione sono il palcoscenico privilegiato per i colori che via via dall’oscurità si aprono in toni assolutamente inaspettati, dal cobalto al rosso, e che a loro volta scaturiscono da una visione mai univoca e che nel “romanzo” dell’arte intrattiene con l’artista (e lo spettatore) le declinazione più svariate. Non a caso, in un passo della pièce teatrale di John Logan dedicata a Mark Rothko – e intitolata appunto “Rosso” – il Maestro e il suo aiutante hanno un diverbio proprio intorno alla natura del colore: «Cos’è il rosso? Cremisi, Scarlatto, Borgogna, Magenta, Salmone, Carminio, Corniola. Non lo so nemmeno io che cos’è “rosso”!» urla Rothko. La risposta di Antonaci non punta su un tono, ma su una fascinazione. Su un’energia che si trova nei passaggi del quotidiano, nella capacità di trattenere l’esperienza della visione e di una fisicità, si potrebbe dire nell’essere presenti al proprio tempo, alla sua tensione. Alle rappresentazioni di simboli che ogni giorno, se osservati attentamente, ci raccontano qualcosa di noi, di un disegno dell’universo.

Da qui si potrebbe iniziare a tracciare le coordinate inerenti alle 33 stazioni di Santiago: 33 come gli anni che all’epoca aveva l’artista e quelli di Cristo. Si tratta in questo caso di una sorta di percorso in vere e proprie stazioni, come potrebbe essere una via crucis allungata e più vicina a un’idea laica di conoscenza, che respira attraverso gli scatti, realizzati durante il periodo peggiore per il cammino (la primavera, al momento dello sciogliersi delle nevi) e in condizioni di dolore fisico. In qualche modo un tragitto che segna, anche in questo caso, un’apertura a nuovi scenari, quasi allucinatori. Non è un caso che le polaroid che compongono le 33 “predelle” siano per la maggior parte quasi dei paesaggi astratti, nonostante spesso si tratti di architetture, sui toni bruciati dell’ocra. Nonostante a uno sguardo poco attento possa sembrare “minimale”, il corpus di opere di Antonaci in mostra a Reggio Emilia non lo è affatto.

Non è nemmeno semplice. Forse mantiene una fisicità essenziale che però è carica di significati, è la sintesi di un approccio vitale, è la forma-ferma nel caos. E la riprova è l’ultima stazione di questo percorso, la terza. Che d’un tratto svela corrispondenze: gli oli pastosi e puri della prima sala e i segni del mondo del passaggio a Santiago: “Opus” arriva addosso come un messaggio misterioso ma che si sente pervaso di sacro o, come racconta Antonaci, è forse il progetto più “alchemico”, legato alla potenza di un’energia, come quella del serpente, che quando non espressa resta sotto terra, ma che è pronta a deflagrare con un leggero spostamento. Di una pietra, di una foglia, di uno sguardo. Una variazione che cambierà gli stilemi di quella “linea tesa sotto” che è il significato greco del termine “ipotenusa”, e che tiene insieme i due lati più corti nella figura del triangolo rettangolo. Spiegare eccessivamente annulla il vortice, mentre la mostra di Massimo Antonaci chiede di lasciarci trasportare, così come porta alla deriva il bellissimo catalogo-libro d’artista “Odos”, edito da Danilo Montanari, che raccoglie un testo di Marco Belpoliti e la sopracitata conversazione dell’artista con Mario Diacono ma, soprattutto, i frammenti, le parole, le immagini, brandelli di testo, di icone, mappe del cielo e metropolitane, labirinti e simboli: una ricognizione per tasselli del mosaico poetico dell’opera di Antonaci.

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