20 marzo 2012

Quando a dipingere è il mare

 
Come ripensare la pratica della pittura e dell’Action Painting nella produzione artistica contemporanea. Alla Fondazione Nomas di Roma, prende il via un progetto sulla pittura. Il primo appuntamento ha visto protagonista la giovane artista inglese Jessica Warboys. Che da Stromboli, dove ha lavato le sue grandi tele nell’acqua del mare, è arrivata a Roma [di Paola Ugolini]

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La Fondazione Nomas di Roma ha inaugurato lo scorso giovedì 8 marzo il primo appuntamento di “A painting Cycle” (a cura di Cecilia Canziani e Ilaria Maggi) con l’artista inglese Jessica Warboys che ha presentato due lavori della serie Sea Paintings realizzati nel corso dell’estate del 2011 a Stromboli.

Dopo ‘A Performance Cycle’ (2010) e ‘A Film Cycle’ (2011), Nomas dedica anche quest’anno una parte della sua programmazione a un progetto che affronta, approfondendolo, uno specifico linguaggio dell’arte, declinandolo nelle sue varie sfumature. I cinque artisti invitati a partecipare a questa interessante ricognizione sulla pittura sono, oltre alla Warboys, Julia Schmidt, Christopher Orr, Agnieszka Brzezanska e Luca Bertolo, oltre ad Alessandro Sarra che conduce il workshop Progettare un cielo con dieci appuntamenti suddivisi tra la sede della Nomas, lo studio dell’artista e alcuni musei romani.

Dopo gli “ismi” del XX secolo e le molte sperimentazioni compiute dagli anni Sessanta in poi, la pittura è ancora il mezzo che, più di tutti gli altri, il pubblico “non addetto ai lavori” associa all’arte tout court e che, sempre più, nel mondo del contemporaneo, si sta riappropriando di spazio, attenzione e confronto. Jessica Warboys, inglese, classe 1977, per questo suo esordio romano ha scelto di presentare una sorta di campionatura di appunti visivi per portare lo spettatore alla scoperta del suo specialissimo linguaggio pittorico che, per alcuni aspetti legati alla gestualità dell’Action Painting, trae ispirazione dal lavoro di un nume della pittura informale: Cy Twombly, l’artista americano che negli anni Cinquanta ha scelto la città eterna come sua seconda patria. Entrando nello spazio espositivo, la prima opera in cui ci si imbatte non ha nulla a che vedere con la pittura, è un video che la Warboys ha realizzato durante il mese di settembre in Sicilia in quel paradiso selvaggio, incastonato fra mare, cielo e rocce nere, che è l’isola di Stromboli nell’arcipelago delle Eolie.

Dopo aver passato l’estate nell’isola ospite del Fiorucci Art Trust per partecipare al progetto artistico “Volcano Extravaganza” curato da Milovan Farronato, l’artista ha deciso di ritornare sotto l’ombra dello Stromboli per realizzare un “ritratto” per immagini dell’isola. Jessica Warboys ha girato il cortometraggio immaginando un punto di vista esterno, una sorta di occhio, che guarda l’isola attraverso una fessura rettangolare di una sua scultura. L’isolotto dello Strombolicchio (scoglio vulcanico che secondo la leggenda eoliana è il tappo dello Stromboli che è volato in mare durante un’eruzione) diventa il soggetto che guarda l’isola madre che lo ha generato. Nel video oltre ai bellissimi colori dell’isola, il blu, il nero e il bianco della luce mediterranea, ci sono anche vari elementi narrativi: un gioiello a forma di serpente trovato casualmente in un giardino, pietre laviche tonde, la scultura geometrica bianca e nera attraverso cui far guardare all’isola piccola l’isola grande e le ombre sinuose che il vulcano disegna sulla vegetazione. Tutte suggestioni visive che hanno contribuito a fare di quest’opera un vero e proprio omaggio per immagini a quell’isola che respira e freme come un corpo vivo.

Al video è messo in rapporto un lavoro scultoreo recente, un quadrato diviso in due triangoli, uno rosso e uno nero, appoggiato a terra contro il muro della seconda sala e che è installato appositamente sulla traiettoria del video, così da creare una sorta di criptico rimando retinico fra immagini in movimento e loro formalizzazione oggettuale.

La Warboys durante il soggiorno strombolano ha realizzato una serie di Sea Paintings, di cui un grande dittico esposto alla Fondazione è il fulcro visivo attorno al quale gira tutta la mostra: tele cosparse di pigmenti colorati che l’artista immerge nell’acqua del mare. Il “modus operandi” di questa giovane artista è indubbiamente performativo, lavare le tele nell’acqua è fisicamente molto coinvolgente dato che la tela bagnata diventa pesantissima e, per arrivare a un risultato ottimale, le tele devono essere immerse nell’acqua, tirate a terra e poi colorate con i pigmenti svariate volte in una sorta di rito sciamanico molto privato. Purtroppo, il rito performativo rimane segreto, perché l’artista, durante quella sorta di danza intima e primordiale con gli elementi naturali che determinano le sue composizioni pittoriche, non vuole né essere fotografata né ripresa. Durante le sue “azioni pittoriche sciamaniche” il mare diventa esso stesso “materia” alla stregua dei pigmenti. Il caso, elemento fondante dell’azione performativa, si fonde nei Sea Paintings con l’intervento, ancor più casuale e imprevedibile, della natura che può essere madre ma anche matrigna. Pigmenti colorati buttati a caso sulla tela ma, soprattutto, acqua, sale, sole, vento, notte, umido e raggi lunari sono gli elementi attraverso cui si determina l’opera pittorica di quest’artista che lavora al crepuscolo come una giovane maga che ricca di antica sapienza misterica riesce ancora oggi a dialogare con gli spiriti degli elementi naturali.

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