02 settembre 2016

Quando gli americani erano poveri

 
La crisi del ’29 e le tempeste di sabbia squassarono gli Stati Uniti. Molta gente cominciò ad emigrare. Dorothea Lange racconta questo mondo con immagini ancora attuali

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Pieghe di asfalto sgretolato e volute di terra battuta tracciano un’intricata articolazione sui vestiti e sulla pelle. La strada da percorrere è ancora lunga e si estende tra l’orizzonte e le persone come una scia cinerea. L’epopea americana del viaggio, scritta da avventurieri, pellegrini e banditi è ripercorsa, negli anni ’30 del Novecento, da affollate carovane di famiglie, spinte non dall’ideale della frontiera e dalla corsa all’oro ma dalle misure di regolamentazione dei flussi migratori interni, imposte dal Rural Resettlement e dal New Deal, in fuga dal Big Crash finanziario del ’29 e dalle tempeste di sabbia del Dust Bowl che, per un decennio, hanno inaridito le Grandi Pianure. 
Dal 1935 al 1943, il Congresso degli Stati Uniti affidò a Roy Striker, professore di sociologia della Columbia University, l’incarico di coordinare un gruppo di fotografi, con il compito di documentare le drammatiche condizioni di vita e di lavoro degli agricoltori. Questo ambizioso reportage rientrava tra i progetti della Farm Security Administration, organizzazione federale nata per far fronte all’emergenza agraria, e coinvolse alcuni tra i maestri più influenti della fotografia di indirizzo sociologico, tra i quali Arthur Rotsthein, Ben Shahn, Walker Evans e Dorothea Lange.
Alla fotografa nata in New Jersey nel 1895 e tra i fondatori del Group f.64, lo Studio Trisorio di Napoli, proponendo sia foto originali che riproduzioni fatte oggi, ha dedicato una retrospettiva che offre un esauriente spaccato sull’intreccio indistricabile tra l’attività e il suo tempo (“Dorothea Lange, A visual life”, fino al 15 settembre). Le mani rugose intrecciate agli strumenti di lavoro, le suole delle scarpe consumate dalla polvere, bauli e valigie accatastati sui cassoni, le tendopoli improvvisate ai margini dei campi di tabacco, entrano nello spazio inquadrato da Dorothea Lange. In queste immagini, durezza e armonia coincidono, documento e immaginazione tracciano un percorso comune, la sociologia condivide gli assetti dell’estetica. Il racconto della Grande Depressione diventa mitologia universale, lo sfruttamento e le miserie, le migrazioni interne e la provincia rurale, assurgono a paradigma di una condizione umana, la metodologia artistica riconcilia i processi storici nell’immaginario collettivo. 
Dorothea Lange, Camp near Shafter, California, 1940
Erano anni in cui la maggior parte della produzione culturale americana si concentrava sui fenomeni sociali, similmente a quanto accadeva in Italia con il Neorealismo. Ma, mentre autori come John Dos Passos si dedicavano alla descrizione di una realtà urbana in decadenza, altri, tra i quali anche Dorothea Lange, si rivolgevano al mondo della provincia, agli esclusi dalle grandi narrazioni che riuscivano finalmente a emergere. Solo poco tempo prima, gli Stati Uniti avevano rivelato al mondo la potente ascesa delle città, sviluppatesi dal nulla a ritmi vertiginosi lungo lo sferragliante tracciato della ferrovia, dichiarando il mito fondativo del guado al fiume Potomac, della Colt .45, di Fort Laramie, della pista dell’Oregon, dell’individuo che affronta il fato e costruisce il proprio destino, in un ambiguo positivismo di matrice romantica. Allora, la crisi del ’29 decretò uno slittamento del punto di vista, un’altra estetica doveva promulgare il proprio canone, quello della superficie scintillante di vernice dei nuovi trattori a benzina, delle lunghe file di braccianti agricoli, seduti ad aspettare sul ciglio della strada, degli autocarri incolonnati sulle sterminate Highway e dalle lamiere infuocate, fenditure nette tra i paesaggi deserti. Il singolo, non più trionfante, cedeva il passo alla massa degli sfruttati e degli oppressi, il sogno americano si infrangeva in una narrazione spettacolare. Significativo che, al National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, siano conservati due film di John Ford, uno è The Iron Horse, del 1924, incentrato sull’epica costruzione della ferrovia transcontinentale, sullo sfondo di violente schermaglie tra i laboriosi operai e i feroci Cheyenne, l’altro è The Grapes of Wrath, del 1940, tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck, che racconta il penoso viaggio di una famiglia di agricoltori, gli indimenticabili Joad, lungo la Highway 66. 
Dorothea Lange, Hands, Maynard and Dan Dixon, 1930 ca
Così, quando Roy Stryker fissò gli scopi e la portata del suo ambizioso progetto di documentazione, aveva ben chiare le modalità di approccio. «La fotografia documentaria è un modo di accostarsi alle cose, non è una tecnica; è un’affermazione, non una negazione», in queste sue parole si legge una netta dichiarazione di intenti, secondo la quale il peso artistico non esclude affatto la lettura sociale. Solo tre anni prima, nel 1932, si era formato il primo nucleo del Group f.64 – fondato da Edward Weston con, tra gli altri, Ansel Adams e, appunto, Dorothea Lange – aderente al movimento della Straight Photography. Questi fotografi seguivano le due coordinate fondamentali della nitidezza e dell’essenzialità, la composizione dell’immagine si distaccava dall’impostazione pittorica e si strutturava sui ritmi di un’armonia naturale, diretta, tra il mondo, l’obbiettivo e l’occhio, escludendo filtri e particolari procedimenti di fotoritocco e di stampa. In questo modo, la scena subiva un processo di decontestualizzazione, per il quale la forma assurgeva a emblema. 
Sulla facciata del Crossroads Store dell’Alabama, immortalata nel 1938 dalla Lange, tutti gli elementi si sovrappongono in un horror vacui barocco. I cartelloni con la rigida scritta Chesterfield e la sinuosa bottiglia di vetro della Coca-Cola, l’erogatore della Texaco, gli uomini in salopette seduti su bassi sgabelli, le assi di legno della scaletta che sale sulla veranda, ordiscono una connessione geometrica e narrativa, una struttura di significati riferita a una storia e interpretabile come forma. Dietro lo sguardo della Migrant mother, icona in cui coincidono un’epoca e uno stile, c’è una donna tanto reale quanto allegorica, ritratta in una posa dolente e atavica, il tempo vissuto sulla sua pelle è anche quello di coloro che, a distanza di anni, la osservano. «Simile al busto scolpito di un idolo in una nicchia, che ci guardava oppure non ci guardava, era impossibile dirlo. Così passò da una generazione all’altra, amabile, ineluttabile, impervia, tranquilla e perversa», scriveva William Faulkner in uno dei suoi testi più famosi, Una rosa per Emily.
Mario Francesco Simeone 

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