13 maggio 2015

Se McCurry va a Cinecittà

 
Da un lato un occhio spalancato sulla realtà, dall’altro il tempio della finzione. Ma è proprio questo ad attrarre il fotografo americano. Ecco la storia di questo strano incontro

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Un connubio particolarmente felice e affatto casuale, quello tra Steve McCurry e gli studi di Cinecittà. Un incontro molto desiderato dal fotografo americano sin da quando da ragazzo studiava cinema all’università della Pennsylvania per diventare regista, prima di preferire la macchina fotografica alla macchina da presa.
«Quando qualche anno fa chiedemmo a Steve quale luogo dell’Italia volesse fotografare per primo, ci sorprese rispondendo Cinecittà. È da allora che insegue il desiderio di una mostra in questi luoghi», racconta Biba Giacchetti, curatrice della mostra insieme a Peter Bottazzi che ne ha curato anche l’allestimento. E l’allestimento, come tutte le ultime mostre di McCurry in Italia, gioca un ruolo molto importante. Il Teatro1 – che viene inaugurato come nuovo spazio espositivo di Roma per la prima volta con questa mostra – è stato disegnato da Bottazzi con un allestimento fatto di teli scuri ai quali le immagini si appoggiano, ma che nello stesso si frappongono tra una fotografia e l’altra, mettendo in risalto una immagine e offuscando la vista delle altre, creando piani diversi esattamente come nell’obiettivo fotografico: dipende dall’osservatore scegliere cosa e quando mettere a fuoco. Estremizzando quanto già avevano realizzato nell’allestimento delle mostre di Milano e Perugia, i curatori mettono completamente nelle mani dello spettatore la possibilità – potremmo dire l’inevitabilità – di perdersi e di scegliere il proprio percorso, di seguire ed inseguire le immagini, di mettere a fuoco la storia che preferisce, o semplicemente perdersi nelle storie che gli sguardi ed i luoghi immortalati da McCurry raccontano con la sensazione, talvolta, di essere non tanto osservatori, quanto osservati. 
Materiale di scena, Cinecittà, Roma, 2011
Sì, perché in molti degli scatti presenti in questa selezione, i soggetti non sembrano “subire” lo sguardo del fotografo, sembrano piuttosto protagonisti che si affacciano sul mondo per osservarlo dalla propria prospettiva: la finestra di una capanna di fango, la soglia di una porta di legno tanto scolorita quanto minuziosamente intarsiata, i finestrini di un treno affollato… 
Le mostre di McCurry in Italia organizzate da Civita e da SudEst57 dal 2009 ad oggi hanno avvicinato al suo fotogiornalismo un pubblico di oltre 600mila visitatori, non potevano quindi mancare nella selezione dei due curatori alcuni tra gli scatti che hanno reso McCurry famoso in tutto il mondo. Ma la parte più consistente del corpo di questa mostra – composto da circa 150 immagini digitali stampate nello studio di McCurry negli Usa e montate in Italia su D-bond – è costituito da fotografie nuove e addirittura alcune inedite, scatti che ci fanno scoprire un lato del fotografo americano meno noto, fatto non solo di ritratti, ma anche dei “segni” lasciati dall’uomo. Scopriamo così che ombre, detriti, graffiti, oggetti, parlano come e quanto gli esseri umani che li hanno vissuti. Una giacca ed uno spazzolino ordinatamente appesi su un muro consumato dal tempo raccontano da soli la storia di solitudine di un uomo malato di Aids il cui viso non ha la necessità di comparire. 
Cammelli e giacimenti di petrolio, Kuwait, 1991.
“Un lavoro per sottrazione”, così lo definisce Giacchetti, una ricerca delle “tracce” più che delle presenze, che sembra interessare McCurry sempre di più, ma che per il fotografo americano è percorso così naturale e coerente da risultare quasi inconsapevole. «Steve non crede di operare un percorso di ricerca. Lui semplicemente fotografa. Sempre, continuamente, è la sua ragione di vita ed il suo dna. Non percepisce quello che vediamo noi nelle sue immagini. Una certa qualità compositiva specifica, che appartiene solo a lui, se gli viene fatta notare lo lascia stupito», spiega Giacchetti, che prosegue: «Ma non è “voluta” da lui, o messa in scena come qualcuno può pensare. È il suo istinto. Lo stesso vale per queste “tracce”, questi muri devastati e gli oggetti, che sempre più fotografa. Siamo noi – soprattutto io che curo le sue mostre da anni – a rilevare queste variazioni, a fare queste scoperte e a scegliere di condividerle con il pubblico. Per noi Steve è un narratore di umanità. La cosa straordinaria è che sempre più spesso accade che lo faccia senza la necessità di avere la presenza umana nelle sue immagini».
In uno dei sei video presenti nella mostra che raccontano sia gli aspetti professionali che quelli più intimi del lavoro di McCurry, il fotografo americano sostiene: «Non posso immaginare come si possa vivere meglio se non viaggiare fotografando». Per lo spettatore di questa mostra sarà un po’ come viaggiare insieme a lui tra le storie che gli sguardi, gli oggetti e i luoghi deserti di queste immagini raccontano.

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