10 dicembre 2016

Un’intrusa nel mondo dell’arte. E altre storie

 
Incontro con Valentina Vetturi durante la sua residenza presso l’IICS di Stoccolma. Che ci racconta il suo Alzheimer Café, dove il suono sopravvive alla perdita della memoria

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A partire dallo scorso novembre è iniziato un nuovo programma di residenza per artisti visivi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (IICS), un’iniziativa davvero positiva e apprezzata. Come in altri istituti esteri (in special modo l’Istituto francese e quello polacco), che offrono l’opportunità di conoscere e promuovere l’arte contemporanea dei rispettivi Paesi, l’intensificarsi di iniziative simili presso l’IICS permette al sistema dell’arte svedese di avvicinarsi finalmente agli artisti italiani. La residenza, a cura di Valentina Sansone, è dunque un’iniziativa necessaria. Il programma sostiene la ricerca di artisti italiani attraverso la creazione di un network internazionale, volto a favorire l’avanzamento della loro produzione artistica.
Valentina Vetturi (Reggio Calabria, 1979) è la prima artista invitata al programma di residenza. La sua permanenza a Stoccolma è stata pensata ad hoc, a partire dalla sua ricerca su memoria e suono, iniziata nel 2014 con il progetto Alzheimer Café. Durante il mese di permanenza all’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (un edificio degli anni Cinquanta progettato da Giò Ponti), Vetturi ha collaborato con diverse istituzioni svedesi: Ersta, il centro specializzato nel trattamento e la cura delle malattie neurologiche degenerative a Stoccolma; Elektronmusikstudion (EMS), il centro per l’elettroacustica e la sound art in Svezia; AgeCap – Centre for Ageing and Health e l’Università di Göteborg. 
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La sera del 6 dicembre, nel corso di un evento all’IICS con cui si è chiusa la residenza, l’artista, in conversazione con Valentina Sansone, ha proposto una selezione dei suoi lavori più recenti e ha presentato il lavoro avviato con le istituzioni svedesi. Nell’auditorium dell’IICS (qui il soffitto è realizzato da Pier Luigi Nervi) era possibile assistere al video della performance Alzheimer Café II (MAXXI, Roma, 2014). 
Incontro Valentina Vetturi all’IICS, mi racconta che il suono e la scrittura sono spesso al centro del suo lavoro. Due media e due espressioni, che l’artista mette in relazione con il tempo. 
In che modo suono e scrittura incidono sulla tua ricerca artistica? Si potrebbero considerare elementi essenziali nel tuo lavoro?
«È nel continuo confronto tra azione performativa e azione di scrittura che nasce la mia ricerca artistica. Guardo alla scrittura come a una pratica ampia, che riguarda sia la parola che il suono. Scrivere per me vuol dire comporre frammenti di realtà attraverso la finzione: costruire partiture sonore o testuali, che sono il nucleo a partire dal quale si sviluppa la dimensione performativa e scultorea delle opere».
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In Alzheimer Café lavori con pazienti afflitti dal morbo di Alzheimer, di cui collezioni principalmente ricordi sonori: ninne nanne dell’infanzia, canzoni popolari e hit che li hanno accompagnati in gioventù. Perché le memorie sonore rimangono intatte nonostante l’Alzheimer? Hai notato delle differenze nei pazienti con origini diverse? Oppure lo si potrebbe considerare un fenomeno che va al di là dalla cultura di appartenenza?
«I ricordi musicali persistono ai danni neurologici provocati da malattie come Alzheimer o demenza per via di un automatismo del cervello legato a fattori emozionali. Incredibilmente anche quando i normali meccanismi neurologici della memoria sono azzerati, si è in grado di “ricordare” motivi del passato. Persone che non sono più in grado di rammentare il loro nome possono evocare con la loro voce frammenti di canzoni, nenie, motivi del passato. Alzheimer Café è un ciclo di lavori dedicato a questi ricordi sonori, gli ultimi che resistono nella nostra mente alla degenerazione neurologica causata dalla malattia. Ho iniziato a collezionare questi ricordi musicali in Germania nel 2014, la ricerca è continuata in Italia nello stesso anno e qui a Stoccolma nel mese appena trascorso. In base a queste esperienze credo di poter dire che sì, come hai osservato, il fenomeno di resistenza della musica alla perdita di memoria trascende ogni cultura, pur declinandosi in modo diverso in relazione alla qualità timbrica delle voci e della lingua di origine, alla tipologia di canzoni e ai temi trattati. Queste diverse declinazioni e i contesti cui sono legate hanno portato alla creazione di opere formalmente molto distanti tra loro. A Goeppingen, su invito della Kunsthalle, ho realizzato una scultura nella città. Alzheimer Café I (2014) ha la forma di una piramide, rossa. All’interno sul pavimento due botole: due carillon suonano ricordi musicali se aperti. A Roma, su invito del MAXXI, ho ideato una performance. Alzheimer Café II (2014-15): è uno spazio di ascolto futuribile, una nuvola sonora in cui potremo preservare i nostri ricordi prima che svaniscano».
 
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Se I ricordi sonori vanno oltre la nostra coscienza, indipendentemente dalla cultura di provenienza, o dalla vita che hai vissuto, possiamo dire che la stessa qualità la possiede l’arte?
«Mi piace pensare che l’arte abbia questa capacità di trascendere il tempo, l’esperienza e la cultura da cui proviene. Del resto la musica è a tutti gli effetti una forma d’arte». 
Hai una laurea in giurisprudenza e un MA in arte, architettura e paesaggio. Mi hai raccontato di esserti inspirata a Jean-Luc Nancy e al suo libro “L’intruso”. Ti definisci un’”intrusa” nel mondo dell’arte, questa è un’immagine che mi è piaciuta molto. 
Come applichi l’idea di “intruso” alla tua ricerca? E cosa puoi raccontarci di questo periodo in Svezia?
«Ho incontrato questo testo di Nancy quando ormai la mia pratica di intrusa e artista era già in atto, e più che ispirarmi ho trovato nelle sue parole una descrizione significativa: chi è l’intruso e quale può essere il suo ruolo? Nancy parte dalla sua esperienza: un trapianto di cuore. Questo intruso, il cuore di un’altra persona, gli permette di vivere. E mantiene la sua funzione proprio perché straniero. Quali le reazioni possibili a questo corpo estraneo? Lo straniero può essere espulso, rigettato, può essere accolto annullando le differenze. O può essere ricevuto mentre si accetta la sua qualità di straniero. L’intruso porta le domande, guarda con un filtro che solo la distanza permette. Forse l’arte è come quel cuore estraneo nel corpo della società. Nel mio lavoro mi confronto sempre con ambiti del sapere eterogenei e con gli individui che di questo sapere sono portatori. Che siano pendolari, ghost writers, malati di Alzheimer, direttori d’orchestra, giocatori di scacchi o hacker che generosamente accettano di condividere tempo e sapere con me, sono una intrusa rispetto a loro. Questa posizione mi perfette una forma di libertà, mi permette di cambiare anche le regole interne a questi ambiti del sapere. Nel caso di Alzheimer Café un difetto, l’incapacità di ricordare, diventa una forza: una forma di resistenza poetica. Alzheimer Café è un monumento, uno spazio pubblico in cui ascoltare ricordi privati che cantano per non scomparire. Qui in Svezia, grazie al prezioso lavoro di Valentina Sansone e al supporto dell’Istituto Italiano di Cultura, abbiamo avviato una rete di relazioni in vista di una possibile nuova tappa di Alzheimer Café: ho frequentato e lavorato negli studi di EMS, Elektronmusikstudion e ho avuto modo di dialogare con i compositori e i musicisti in residenza, ho incontrato gli ospiti di ERSTA, un centro di attività diurne per malati di Alzheimer che ha anche un coro sorprendente composto da alcuni dei pazienti. Con loro abbiamo cantato e poi ho cominciato a registrare le loro voci, per arrivare a comporre una prima bozza sonora». 

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Durante la residenza, hai partecipato a un seminario sul rapporto tra arti visive, scienza e tecnologie organizzato in collaborazione con l’Università di Göteborg. In un’epoca in cui la scienza spesso è più imprevedibile dell’arte e la tecnologia si mescola a questioni ontologiche, cosa si intende per “io” e “tu” nell’era di Internet? Mi hai parlato del tuo lavoro sugli hacker con queste parole: “Don’t Be Your Own Panopticon”. Mi racconteresti qualcosa di più?
«Il seminario all’Università di Goteborg è stato interessante per questa nuova fase di ricerca legata ai ricordi sonori. Ogni relatore ha affrontato il tema dell’Alzheimer da punti di vista diversi: come la neurochimica o la psicologia o l’arte. La scienza mi interessa come ogni altro campo del sapere, per me non ha un ruolo preponderate nel rapporto con le arti visive rispetto ad altre discipline come alla filosofia per esempio. Anche se questo sembra essere un trend affermatosi negli ultimi anni. Forse l’arte in questo momento ricorre la scienza e le sue scoperte e applicazioni nella realtà. La tecnologia permea le nostre vite in modo totalizzante, oggi è un terreno su cui si muovono molte questioni politiche e ancor prima ontologiche come dicii. Da qui il mio interesse e il ciclo di lavori dedicati al mondo hacker. La frase che citi è parte di “A Better Chance to Gain Enough Entropy”, terza tappa di questo ciclo. L’opera è stata presentata su invito di Matteo Lucchetti, in occasione della Quadriennale 16 al Palazzo delle Esposizioni a Roma e si compone attraverso le incursioni fisiche e sonore di un coro e una installazione a led luminosi su cui sono manoscritti frammenti di un possibile manifesto del web sommerso. Uno dei testi recita: Digital Panopticon Don’t Be / Your Own Panopticon Take Care / Preserve Your Digital Self.
E per ora preferisco piuttosto che raccontare altro del lavoro invitarti a venire a visitare la mostra: il 17 dicembre il coro sarà di nuovo in scena».  
Sarah Guarino Florén

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