02 gennaio 2016

VISIONI E PROSPETTIVE

 
Il fascino della libertà dell'arte
Seconda parte dell’intervista ad Andrea Cortellessa. Che dice la sua sui giovani, la scuola in Italia, e l'arte

di

Riprendiamo il discorso interrotto qualche giorno fa, passando dalla critica letteraria alla formazione e ad altri temi. Che Cortellessa affronta con la sua proverbiale passione
Con la trasmissione Alfabeta, che è andata in onda le scorse settimane su RAI 5, approfondisci alcune tematiche universali tra cui “amare” e le stai diffondendo su un mezzo pubblico come la tv che fino adesso non è a pagamento. A cosa ambisce questo progetto?
«È parzialmente vero, comunque noi siamo grati alla RAI che ha voluto investire, seppur poco, su un progetto indipendente. Mi chiedi cosa vuole essere un progetto come Alfabeta…difficile rispondere a questa domanda. Premetto che una rivista oggi, vive un po’ dei paradossi di cui si parlava prima. La rivista Alfabeta 2, da cui nasce la trasmissione, è uscita per quattro anni su carta e abbiamo avuto un pubblico, con una tiratura media di 4mila copie. Oggi lo share di questa trasmissione, seppur ridotto, moltiplica per 20 questo uditorio, quindi sei costretto a modificare il tuo linguaggio, devi cercare, come dice Angelo Guglielmi che è uno dei consulenti della trasmissione, di narrativizzare le questioni teoriche e politiche che vengono dibattute. La trasmissione si colloca in un territorio di confine: Franco Fortini parlava di “Questioni di frontiera”, quando sei messo nelle condizioni di impiegare un linguaggio che non possiedi fino in fondo, come quello della televisione per me, cercando di adattarlo a una fruizione diversa. Per esempio in questa trasmissione, abbiamo dedicato molta attenzione alle ambientazioni che sono legate ovviamente al soggetto della singola puntata; su questo ci siamo a lungo interrogati. Il luogo deve diventare parte integrante dell’argomento. Questo in qualche modo è legato alla cultura come situazione. Il che mi pare non sia stato capito, o meglio non lo si è voluto capire. Fa specie che la lettura critica su questa trasmissione sia stata esclusivamente affidata ad Aldo Grasso, che ha una sua idea molto particolare della televisione e che, ciò malgrado, sembra l’unico critico ad avere diritto di parola sui prodotti televisivi. Questo è un altro segno di quella mancanza di sfera pubblica, che è il problema principale della società contemporanea. Ossia puoi dire delle cose anche scomode però è come se non le dicessi, perché la discussione, che in qualche misura vuoi sollecitare, non si verifica. Un altro fattore da prendere in considerazione è il fatto che Alfabeta è una rivista nata sulla carta e poi andata sulla rete e in qualche misura i linguaggi che abbiamo adottato, le stesse tematiche affrontate, sono figli di questi passaggi di stato. L’identità è mutante già in partenza e quindi più incline a essere adattata a un linguaggio diverso come quello della televisione».    
Un momento da Alfabeta, su Rai 5
In una puntata si è parlato di “combattere”, si è parlato di guerra e tutte le declinazioni che questa parola comporta. Come si combatte invece l’appiattimento generale della cultura? 
«Con molta ostinazione! Io per esempio sono nato nel 1968 e penso che, da parte mia e di quelli della mia generazione, ci sia un attaccamento un po’ etnico, quasi razziale al Novecento. Ci siamo formati in un tempo oggi percepito, specie da chi è più giovane di noi, come passato remoto. Questo ti fa percepire dall’esterno come un ferro vecchio, spesso hai l’impressione di essere preso in considerazione come un fenomeno di colore, un oggetto desueto, e lasciato di conseguenza col minimo spazio, le minime risorse a disposizione. In queste condizioni quello che vuoi dire rimane lì, quasi fosse una pia speranza… Però l’ostinazione rimane, quella d’immaginare che i giovani, saltata una generazione, possano riprendere quei vecchi pensieri come fossero degli arnesi misteriosi da maneggiare in modo un po’ selvaggio, cercando di capire cosa funziona e cosa non funziona. Brecht scrive che un giorno verremo perdonati per il nostro tempo: il Novecento certo ha molte cose da farsi perdonare, però la speranza è che i nativi del Duemila molte cose ci perdoneranno e alcune magari le faranno proprie».    
Walter Benjamin
A proposito delle nuove generazioni, parliamo di Andrea Cortellessa professore, che insegna all’università di Roma Tre, ora in politica si parla di investire in una “buona scuola”, ritieni che il sistema stia finalmente cambiando?
«Anche in questo caso sono anfibio, perché ho vissuto come studente nella vecchia università e come docente nella nuova. Mi sono laureato con Walter Pedullà nel lontanissimo 1992. Anche in questo caso non posso non rimarcare la differenza, dal punto di vista materiale, tra il secolo passato e le nuove generazioni. La scuola vecchia, già figlia del Sessantotto, aveva messo a frutto un principio importante del modernismo, per cui la conoscenza si ottiene attraverso la sofferenza. Questo principio nietzschiano, che è un valore morale oltre che gnoseologico, è venuto ampiamente meno. Prima quando trovavamo una nota a piè di pagina, capivamo che c’erano centinaia di libri che non avevamo letto su quell’argomento, ed eravamo indotti a fare delle ricerche complicatissime per arrivare alla fonte di quel determinato tema. Questa sofferenza, questo travaglio che si rendeva necessario per l’acquisizione di un dato di conoscenza, ci rendeva lo stesso apprendimento prezioso, ce lo stampava nella memoria. Ora il fatto che quel sapere sia facilmente fruibile, con un colpo di mouse, lo rende assai meno attraente. Quello che io noto nei giovani a cui insegno, che sono tanto intelligenti quanto quelli di allora, è che peccano di una mancanza di curiosità. Quella curiosità era dovuta proprio alla sofferenza, al senso quasi di un eroismo intellettuale che consisteva appunto nell’ostinazione, nel cercare di procurarsi un oggetto di sapere che tutto congiurava per negarci. Ora il fatto che queste informazioni possano essere acquisite senza nessun tramite, le rende anche meno interessanti e attraenti. Questa mancanza di desiderio di conoscenza definirà i confini di un’umanità nuova, che non possiamo ancora prevedere, ma che sarà molto diversa dalla nostra. La scuola e l’università hanno facilmente abdicato a quella forma di resistenza e di attrito che ponevano tra il giovane discente e la conoscenza a cui aspirava. Quell’attrito era una palestra cognitiva ed esistenziale, invece tutti i procedimenti delle varie riforme universitarie, tutte nate nel centro sinistra, hanno costruito un universo in cui tutto deve essere dedicato al conseguimento formale della laurea. Oggi la laurea è più facile ottenerla che in passato, certo; noi docenti siamo spinti in ogni modo a facilitare questo passaggio, che risponde a precisi parametri europei. Non è un caso che il livello certificato dei nostri laureati negli anni passati fosse di un tipo e ora sia molto più basso. Per poter omaggiare un criterio scolastico quantitativo si è vilipeso un sistema qualitativo dell’apprendimento della conoscenza!  Queste riforme hanno svuotato di significato non solo lo studio ma anche la docenza. Il dottorato di ricerca, per esempio, che prima era un conseguimento importante nella carriera di uno studente, un completamento della sua  formazione, ora rappresenta invece un ennesimo parcheggio, che non prevede l’accesso alla docenza universitaria e quindi alla ricerca: è stato svuotato della sua funzione, perché la struttura che la contiene la vanifica».  
Una manifestazione contro la riforma
In un sistema scolastico come il nostro non sarebbe quindi utile applicare il modello anglosassone? Nel mondo anglosassone il tempo indeterminato in un contratto significa che non vi è limite alla durata, ma che entrambe le parti possono rescindere l’accordo con un preavviso. Questo creerebbe una maggiore circolazione di idee e quindi sarebbe un arricchimento da entrambe le parti, studenti e professori.
«Siamo proprio convinti che il sistema anglosassone incoraggi ad approfondire? Ho l’impressione che questo non sia necessariamente vero. Harold Bloom ha affermato che spesso i migliori docenti nord-americani sono portati ad adottare dei corsi e dei programmi molto demagogici, molto mirati sull’aspettativa degli studenti, per esempio orientato a incoraggiare forme di attenzione identitaria: alle minoranze etniche, ai comportamenti sessuali, eccetera. Questo porta a far prevalere criteri contenutistici rispetto a un’attenzione formale alla letteratura; abbassando il livello medio dell’insegnamento, livellandolo a uno standard molto basso. Io penso che ciascun sistema non solo nell’ambito dell’insegnamento, ma nell’amministrazione in generale debba essere site-specific, ossia debba tenere conto delle coordinate culturali e sociali della nazione e del Paese a cui appartengono. In un Paese ultra-liberista, come quello statunitense, può darsi  che la circolazione del sapere sia incoraggiata. In Europa il processo denunciato da Bloom è meno marcato, ma in Italia ci si sta arrivando, per esempio la riforma universitaria del 3 più 2  è ricalcata sui modelli statunitensi. Modelli che valgono, se valgono, in un contesto sociale e culturale diverso dal nostro».
Oval, Artissima
“Investire per una buona cultura” non è certo un tema nuovo, ma è diventato però un leit- motiv su cui si discute molto. Pensi realmente che servono investimenti privati per una buona scuola e nuova cultura?
«Quello che penso a riguardo è abbastanza irrilevante perché siamo in una economia di mercato e quindi se ci saranno delle risorse proverranno sicuramente da privati. Qui mi rivolgo a te, una persona che lavora nel mondo dell’arte, che vive già questa dimensione: se non ci fosse il contributo dei privati, con i loro interessi di collezionisti e di mercanti, non si andrebbe da nessuna parte. Penso però che da questo sistema dell’arte si debba imparare qualcosa: il vostro mondo ha raggiunto dei livelli di finanziamento che lo smaterializzano. Ossia l’opera finisce per essere una funzione algebrica, un logaritmo che consente un’accumulazione di capitale per i collezionisti. Ovviamente le opere d’arte hanno uno statuto diverso rispetto a quelle letterarie, abbiamo tutti letto Benjamin. Ciò malgrado penso che conoscere opportunità e aporie di questo sistema, a noi letterari, consentirebbe di evitare molti squilibri, molti eccessi e molti arbitri. Penso che nel mondo dell’editoria un maggiore intervento pubblico avrebbe senso. Ci sono Paesi come la Norvegia o la Francia in cui l’appoggio pubblico all’editoria di qualità ha una sua storia e una sua efficacia. Si dice sempre che erogare finanziamenti pubblici in Paese come l’Italia esponga a imbrogli e mistificazioni senza limiti. In effetti se guardiamo all’unico settore in cui risorse pubbliche sono demandate all’editoria, ossia quello della traduzione dei libri italiani all’estero, possiamo constatare che – per usare un eufemismo – i risultati sono piuttosto scarsi. Ma non si risponde al malfunzionamento dei trasporti pubblici, mi pare, abolendoli (chissà, forse prima o poi si sentirà anche questa proposta). Un intervento pubblico nell’editoria è una misura che è urgente discutere, trovando un’armonia con l’intervento dei privati. È necessaria un’osmosi tra questi due mondi: non capisco (o capisco troppo bene) in nome di quale ideologia debba essere consentito al privato entrare nel territorio pubblico ed equivalga invece a un tabù pensare di poter fare, qualche volta almeno, la cosa inversa».   
Alberto Burri, Rosso Plastica, 1963
Andrea Cortellessa come critico d’arte: negli ultimi anni si sta imponendo un rapporto nuovo tra arti visive e il mondo letterario, cosa ti affascina dell’arte contemporanea?
«Mi affascina la libertà. Come critico letterario sono sempre stato attratto dalla tradizione del moderno e anche del postmoderno: dai rapporti tra le varie arti, tra i vari codici espressivi, del modo in cui l’uno fa effetto sull’altro, da tutte le forme di interazione tra immagine e parola. Di conseguenza mi sono interessato di come certi fenomeni letterari abbiano avuto un effetto nella storia di alcuni artisti, e viceversa. Diceva Edoardo Sanguineti che il Novecento è stato il secolo del montaggio: in cui un procedimento, nato in un’epoca plebea e minore come il cinema, ha modificato in profondità i processi di tutte le altre arti. Quindi proprio la contaminazione tra piani diversi è la natura del Novecento. È lì che sono nato ed è lì che mentalmente rimango. Comunque a livello più soggettivo quello che mi attrae, ribadisco, è la libertà: il fatto che la mia disciplina e il mio rigore accademico si esercitino in ambito letterario mi porta, accedendo a quest’altra stanza, a impadronirmi in maniera – mi rendo conto – a volte selvaggia di certe tradizioni critiche, di certi dibattiti del passato. Proprio questo senso d’incompletezza, questo muovermi quasi senza rete, mi da una sensazione eccitante: quella di cui si parlava prima, di vivere su una frontiera. Sei spinto a una maggiore creatività, quando ti esprimi in una lingua che non ti appartiene».
C’è un artista italiano al quale ti senti particolarmente legato o a cui devi la tua apertura all’arte contemporanea?
«L’artista della mia vita è Alberto Burri. Penso che sia stato il più grande artista di tutte le arti del Novecento. Sapere che fosse un sincero fascista, oltre che una persona sostanzialmente arida, è per me un paradosso infinito. Un mistero che possiede la mia anima».
Benedetta Carpi de Resmini

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui