04 marzo 2013

L’intervista/Valerio Rocco Orlando Il viaggio in Italia alla rovescia

 
Valerio Rocco Orlando ha trascorso circa un anno a Roma in una residenza itinerante, ospite di diverse Accademie straniere, dove ha incontrato artisti di varie nazionalità. Oggi, alla Gnam di Roma, inaugura il progetto “The Reverse Grand Tour”, dove il Viaggio in Italia del passato è messo a confronto con quello di oggi. Ne esce fuori un ritratto inedito della città, ma soprattutto il bisogno di condividere pezzi di vita con altri artisti

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La Galleria Nazionale di Roma ospita una videoinstallazione dell’artista milanese, composta da ritratti degli artisti stranieri che raccontano la propria esperienza nella Capitale corredata da una serie di fotografie con vedute degli interni degli studi. Il tutto accanto ai ritratti degli artisti del Grand Tour. In questa intervista a Exibart Valerio Rocco Orlando racconta la sua esperienza.
“The Reverse Grand Tour” (a cura di Ludovico Pratesi e Angelandreina Rorro) è un progetto nel quale tessi una trama di relazioni su più livelli, indaghi cioè i dialoghi che si creano tra artista e territorio, tra artista e Accademie, tra artista e artista. In che modo hai lavorato alla realizzazione del progetto?
«Dopo diverse esperienze di residenza lo scorso anno a Roma, ho incontrato alcuni degli artisti residenti nelle Accademie straniere della Capitale e qui ho riconosciuto un teatro privilegiato per mettere in scena la mia indagine sulla relazione tra l’artista e il contesto in cui si trova a lavorare. A mio parere la maggior parte degli artisti stranieri crea di rado un dialogo con il territorio o con gli altri artisti presenti in città. Gli studi, tanto quanto gli appartamenti nelle diverse Accademie, sono come meravigliose isole in cui si osserva la realtà dall’interno, una sorta di camera con vista legata alla pratica settecentesca del Grand Tour. Da qui il titolo del mio progetto: The Reverse Grand Tour in riferimento a un Grand Tour al contrario che, partendo da Roma, attraversa alcune delle più importanti Accademie internazionali. Ho realizzato quindi un ritratto corale della città, una riflessione personale e plurale su diversi modelli di residenza e, in generale, sulla relazione tra artista e società».
Con quale aspetto del tuo lavoro – tecnico, formale, concettuale o linguistico – hai concepito il rapporto con le collezioni della Gnam?
«La Galleria Nazionale d’Arte Moderna rappresenta il luogo ideale per presentare i risultati del mio lavoro, innanzitutto l’edificio è stato progettato da Cesare Bazzana, grazie al piano regolatore del sindaco Ernesto Nathan nel 1909 proprio a Valle Giulia dove ancora oggi si trovano alcune delle più importanti Accademie straniere. Inoltre la possibilità di creare un dialogo tra la mia ricerca, radicata nell’attualità, e alcune opere della collezione della Gnam, grazie all’invito a esporre accanto ai ritratti e agli autoritratti degli artisti del XIX e XX secolo e ai capolavori legati alla pratica del Grand Tour, arricchisce la fruizione del mio lavoro, inserendolo in una prospettiva storica. Oltre alla videoinstallazione con i ritratti degli artisti stranieri che raccontano, ognuno nella propria lingua, la loro esperienza in prima persona, ho prodotto una serie di fotografie con vedute d’interni negli studi, in riferimento alle quadrerie di Giovanni Paolo Pannini con le rovine della città, in cui però il punto di osservazione viene rovesciato».

Qual è stato il punto di congiunzione tra le esperienze vissute dagli artisti in residenza e la tua pratica artistica?
«Per me l’arte è una questione di desiderio, partecipazione e inclusione. Rispetto al momento storico in cui viviamo, non possiamo che essere presenti, ognuno a suo modo, attraverso un inevitabile e soggettivo processo di riconnessione con la realtà. Questo penso sia un dovere per gli artisti, almeno delle nuove generazioni, che mi accorgo corrano il rischio di chiudersi all’interno di un sistema che ha poco da condividere con il sentire comune. Per questo motivo a un certo punto del mio percorso umano e professionale ho sentito la necessità di confrontarmi come artista con altri artisti. A livello personale, è forse la prima volta in cui mi rendo conto che quello che faccio corrisponde esattamente alla mia natura. Anche in questo lavoro la dimensione processuale è percepibile sia nel montaggio del video, sia nella composizione della serie di fotografie, nella misura in cui l’esperienza di confronto trasversale con individui, punti di vista e prospettive differenti riflette la frammentarietà intrinseca al progetto stesso. La condizione di nomadismo propria dell’artista in residenza, in bilico tra le relazioni costruite fino a quel momento e il confronto con un nuovo contesto, si ricompone come in un gioco di specchi nell’installazione finale».

In che modo hai interpretato e interiorizzato il nuovo modello di Grand Tour?
«In questo lungo anno di residenza itinerante a Roma, pur spostandomi soltanto da un quartiere all’altro della stessa città, è come se avessi attraversato paesi e sistemi distanti, in un viaggio senza soluzione di continuità che dalla Svizzera dell’Istituto Svizzero mi ha portato alla Spagna della Real Academia de España, per poi passare alla Germania della Deutsche Akademie Villa Massimo fino alla Danimarca del Circolo Scandinavo. Come artista italiano esule in mondi altri, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con politiche culturali di ampio respiro, di sostegno reale agli artisti, anni luce lontane dalla nostra (se mai ne esiste una) e ogni volta il mio tentativo è stato quello di adattarmi il più possibile alle regole e alle consuetudini proprie di ogni realtà. Più che creare ponti, seguendo il modello delle “lente passerelle” delineato da Heidegger, ho cercato di camminare a fianco degli altri artisti, confrontandomi con loro nella quotidianità, attraverso un processo di immedesimazione reale, fondato sull’osservazione quotidiana, sull’ascolto e sulla fiducia reciproca. Nonostante in ogni residenza avessi a disposizione uno spazio tutto mio per la produzione, è proprio attraverso il desiderio dei più a partecipare che mi è stato permesso di entrare e lavorare, di volta in volta, negli studi degli altri, in condizioni sempre delicate, in bilico tra le relazioni individuali con gli artisti e i rapporti con l’intera comunità».
Quanto il tuo progetto ha valore etico e quanto estetico?
«Etica ed estetica sono inseparabili. Per il filosofo francese Jean-Luc Nancy “ciò che l’arte può trasmettere è una determinata formazione, configurazione o percezione di sé del mondo contemporaneo”. La partecipazione e la conoscenza attraverso le immagini sono dunque allo stesso tempo uno strumento e un obbiettivo di cui oggi, come interlocutori in qualche modo privilegiati della società. Penso sia anacronistico continuare ad operare in modo isolato all’interno del proprio studio o solo in contesti deputati, producendo opere che hanno spesso il solo risultato di allontanare il pubblico. La bellezza delle immagini è essenziale al coinvolgimento dell’altro, è la soglia che innerva il dispositivo stesso. Se pensiamo all’arte come a un’avanguardia di massa, tanto è importante la motivazione e il processo quanto la sintesi formale e concettuale dell’opera finale». 

Ritieni che l’utilizzo di vari livelli di dialogo unito alla tua personale interpretazione dell’esperienza di residenza fatta dagli altri artisti ti abbia condotto verso un’indagine sulla realtà vissuta o ti ha portato a una sua astrazione generatrice di nuovi significati?
«Storie reali ed esperienze personali sono sempre il punto di partenza per comporre una riflessione universale, che ognuno potrà comprendere e interpretare rispetto al proprio grado di ascolto e partecipazione. Il mio obiettivo non è dare una risposta, ma raccoglierne di diverse per metterle in dialogo tra loro, per sollecitare gli altri a trovarne una propria. La metodologia che ho messo a punto in questi anni, a prescindere che si tratti di un libro, di un film o di un’installazione, prevede una prima fase di raccolta di materiali sul campo e una seconda di riscrittura drammaturgica ed editing finale. Se in principio sono il più aperto possibile al confronto con l’altro, in seguito l’obiettivo è proprio quello di ricomporre la molteplicità dei punti di vista in un unico sguardo personale. È un tentativo il mio di umanizzare e in qualche modo avvicinare alla società l’artista, attraverso il racconto della sua quotidianità, per arrivare a riflettere assieme sul suo ruolo nel mondo contemporaneo. La reciprocità che caratterizza la fase processuale di questo autoritratto corale è fondamentale anche nel momento dell’esposizione, in cui la collettività ha la possibilità di creare un nuovo dialogo, diretto e singolare, con ciascuno degli individui coinvolti nel progetto. In questo modo se si riesce a instaurare, in una prospettiva etica, una relazione mutevole tra artista, comunità partecipante e pubblico finale, credo che l’opera d’arte possa rispondere alla sua funzione di educazione radicale».

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