28 agosto 2019

Mondino a colori. La pittura dagli esordi al linoleum | Camec

di

Fino al 22.IX.2019

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Antonio parla di suo padre, dice che «Era miope, ma si rifiutava di portare gli occhiali». Si chiamava Aldo, e quel suo tirar dritto di fronte ad una vista non proprio perfetta – oltre a far intuire una certa cocciutaggine di fondo – gli ha aperto un mondo di percezioni equivoche che, grazie anche ad un carisma non da poco, ne hanno segnato la poetica. Se Aldo Mondino (Torino, 1938-2005) sapesse che qui e ora vogliamo paragonarlo ad un Cristoforo Colombo alla scoperta del contemporaneo probabilmente si farebbe una gran risata, approdato ad opere come i mitici tappeti in eraclit per un misto di audacia e necessità, perché quando non ci vedi bene e hai un’incondizionata passione per i viaggi a quel punto sarai tu ad accorgerti di qualcosa che gli occhi degli altri non sono in grado di mettere a fuoco. Racconta suo figlio «Un giorno era a spasso per il souk di Tangeri, quando vide in un cantiere un pezzo di eraclit che si era accidentalmente macchiato di rosso. Gli sembrò un tappeto». Da lì presero corpo i suoi mitici rivestimenti tarocchi, dove l’opulenza del manufatto è tutto un sottile equilibrio tra produzione industriale e finzione pittorica. Purtroppo però qui sentiamo il bisogno di tirare le orecchie al Camec, che ce li propone in pezzo unico, un’unica strisciata, una striminzita rappresentanza che poco ne fa rispendere la tracotanza decorativa. E comprendiamo pure che tutto l’impianto della mostra si presenti molto lineare, rigoroso nei contenuti e in generale senza orpelli come dovrebbe correttamente essere quando si trattano certi calibri, ma i Tappeti stesi sono lavori che è preferibile assaporare in estensione, coprendo quanto più possibile – se non interamente – la parete per ricostruire un pezzetto di quell’oriente fatale nell’ispirazione dell’artista. Più ce n’è meglio è, sovrabbondanza qui dovrebbe essere la parola d’ordine.

I tappeti in eraclit chiamano eccesso, un horror vacui che non appartiene a quelli in granaglie e legumi “da pavimento”. Con le sue nappe in farina, Raccolto in preghiera è un gioco cromatico che sul parquet scuro del museo spicca molto bene; è un gioco di parole, di quelli adorati da Mondino, ed è un lavoro molto “patriottico” nel suo rifarsi alla tradizione popolare delle infiorate. Ma in qualche modo anche una riflessione ridanciana sulla vacuità/impermanenza dell’arte contemporanea, quando azzardarsi a calpestarli – vale a dire ad usarli – equivale a disintegrarli inesorabilmente. Evidentemente non vedendoci bene Mondino vedeva più avanti di molti suoi contemporanei. Lui sapeva già tutto, come – sempre da racconti di suo figlio – sapeva far ravvedere quei galleristi scettici sulla resistenza di una pittura su linoleum mai vista prima, impasse da cui l’artista uscì semplicemente andando alla (supposta) radice del termine: linoleum, ovvero olio e lino. Perché la pittura canonica non si basa proprio su tali elementi? Sviluppati da metà anni ottanta in poi questi lavori sono ancora lì, tra stesure alleggerite a mezzo straccio e tubettate di colore pesanti. La grande Festa araba è sempre un geniale tripudio fondo/immagini dipinte, anche se poi sono pezzi singoli come il Venditore di feltri e lane a far capire che in quanto a capacità espressiva Mondino non scherzava affatto.

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Mondino a colori. La pittura dagli esordi al linoleum – installation view – courtesy Camec e Archivio Aldo Mondino – photo Enrico Amici

Ironia della sorte, Mondino cercava canoni per “normalizzare” i propri media, proprio lui che di canonico non aveva un bel nulla, ed ha sempre rivestito paradigmaticamente il ruolo del personaggio difficile da prendere e incasellare. Mondino è quello del linoleum? No, poiché a dipingere su linoleum non si arriva improvvisando, ma dopo essersi fatti le ossa da allievo di Tancredi e aver subito gli influssi di Matta, partendo nei primi anni Sessanta con un segno morbido, particolarmente surrealista per quella sua spiccata gestualità automatica. E qual è il gesto automatico graficamente più comune/personale in assoluto? La nostra firma, perciò leggere in basso a destra in un Senza titolo un “Mondino 61” che ha tanto, troppo della costruzione linea-cromatica totale è forse l’atto di adesione più autentico a quell’automatismo creativo.

Mondino la sapeva lunga, non aveva direzioni precise, ma aveva ben a mente come e quanto il suo mestiere fosse una colossale finzione. Quanto quindi poter tirare dritto per andare oltre le apparenze, grazie a impasti corposi che sembrano uno stiacciato donatelliano, magari anche aggiungendo parti estranee alla pittura (tipo cartoncini ondulati). E, mettendosi a quella giusta distanza di fruizione che tutte o quasi le sue opere prevedono, mistificare in contrasti cromatici netti il segno grezzo delle sue finte xilografie, fiore all’occhiello per un’esposizione che nel suo piccolo mira a far conoscere anche questa produzione anni Settanta, in assoluto la meno popolare di Mondino. Indubbiamente meno dei Quadri a quadretti, opere a due tempi per una sola faida interna tra geometria del segno e libertà del di-segno pressoché emotivo, quando Varazze si divide tra descrizione analitica – quasi con un’immediatezza iconografica alla Bob Noorda – in “bambino,ombrellone, secchiello, paletta” sotto, e impressione espressionista di un grandissimo sole sopra. Basilari nel grande gioco dell’arte mondiniana, e imprescindibili per questa mostra che gli dedica una sezione apposta, nei Quadri a quadretti c’è il Mondino più Mondino di sempre, funambolicamente sospeso su un’arte contemporanea che non lo abbrancherà mai. Uno che a giocare non ci si mette da solo, perché la sua pittura tra le miriadi di cose che può esprimere è la condivisione creativa, è essere “perfomativa”, chiamando chi arriva dopo lui chiamato a reagire di fronte ad una distesa di quadretti da riempire senza freni. «Era divertente perché le persone all’inizio avevano timore ad intervenire» racconta Antonio Mondino; chi però più d’altri se l’è sentita d’entrare nell’opera Serpente ha impresso un pezzetto di com’eravamo negli anni Sessanta, tra una scritta “rivoluzione” emblematicamente trasversale ad un “W il Pci” e all’amore dichiarato per una certa “Rosella”. E magari di “Sandro” a cui affibbiare il poco lusinghiero epiteto di “stronzo” ce ne sono ancora molti, ieri come oggi. Di Aldo Mondino invece non ne fanno più.

 

Andrea Rossetti

mostra visitata il 28 marzo 2019

 

dal 30 marzo al 22 settembre 2019

Aldo Mondino – Mondino a colori. La pittura dagli esordi al linoleum

Camec

Piazza Cesare Battisti 1 – (19121) La Spezia

Orari: da martedì a domenica, ore 11 – 18

Info: +39 0187 727530; camec@comune.sp.it; camec.museilaspezia.it

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