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Cancellare l’odio, riscrivere Verona: il festival di Street Art antifascista di CIBO
Street Art
Nell’epoca della post-verità e dell’iper-visibilità digitale, la Street Art si impone come una delle forme più radicali e accessibili di espressione politica. È un’arte che dai margini irrompe nel centro del discorso pubblico, un atto di presenza nel tessuto urbano e una pratica estetica che si fa linguaggio collettivo e strumento di resistenza. In questa prospettiva, BEST BEFORE non è semplicemente un festival illegale di arte pubblica ma una forma di militanza visiva che riscrive lo spazio con il colore, opponendosi alla violenza simbolica della retorica fascista. Ci presenta il progetto l’artista CIBO.

Il tuo lavoro nasce da una forma di resistenza: reagire all’odio con la Street Art. Ti va di raccontarci com’è nata questa tua battaglia personale?
«Disegno sui muri da quando avevo 16 anni. Finite le pareti di casa, sono passato direttamente alla strada. Ho sempre avuto diverse firme, diciamo che CIBO è quella oggi più nota e che assorbe la maggior parte del mio tempo.
Come tutte le cose belle, il progetto CIBO è nato un po’ per scherzo e un po’ per necessità. Quando sei giovane e hai solo la paghetta, non puoi permetterti di essere troppo selettivo con i colori: quando uscivamo in gruppo a me restavano sempre quelli “pazzi” che non voleva nessuno. Il cibo mi è sempre piaciuto, ogni alimento ha un colore diverso, così ho iniziato a usarli anche nei miei pezzi. Col tempo sono cresciuto e con me anche i messaggi e i valori che volevo trasmettere. La missione antifascista è solo una parte del mio lavoro, attraverso la metafora del cibo cerco di affrontare i grandi temi della nostra società».

Com’è nata l’idea di BEST BEFORE? È stata una risposta spontanea o un progetto pianificato da tempo?
«L’estate scorsa mi sono ritrovato con oltre 80 murales rovinati da gruppi neofascisti. Purtroppo sono episodi che si ripetono ciclicamente, ma stavolta ho sentito il bisogno di dare un segnale più forte, che andasse oltre Verona e potesse parlare a tutta l’Italia, e perché no, anche al mondo. È stata Sara Maira a propormi di coinvolgere altri street artist.
All’inizio ero un po’ dubbioso, a Verona non c’è molta partecipazione attiva, e sono davvero pochi gli artisti che mi danno una mano per paura che gli rovinino i pezzi.
Invece i colleghi hanno subito dimostrato entusiasmo e sostegno. Così, insieme alla mia manager Sara Maira, abbiamo deciso di alzare il tiro e trasformare il tutto in una performance di artivismo: un festival di Street Art illegale che terminasse con una mostra.
Ci siamo chiesti come portare i muri in mostra, e come comunicare il concetto di resistenza, collaborazione e azione. La risposta l’abbiamo trovata nella fotografia, grazie alla collaborazione con la celebre fotografa Martha Cooper».

Quanto ti senti in dialogo con la città quando dipingi e quanto in lotta?
«Nel mio volontariato urbano, quando copro messaggi d’odio, la mia arma è l’arte, non la violenza: quella è la loro logica, non potrei vincere. Io voglio parlare con le persone, entrare in dialogo e portarle a fare piccoli gesti per dire no all’odio che dilaga.
A Verona c’erano così tante svastiche che la gente non le notava nemmeno più, facevano parte del paesaggio urbano. La gente ha iniziato a vedere il problema quando ha visto apparire tanti murales di CIBO. Hanno iniziato a guardarsi intorno, a capire, e qualcuno ha cominciato ad agire. Credo sia una grande vittoria».

Questo progetto nasce da un gesto collettivo di restauro di murales vandalizzati, ma si trasforma anche, attraverso l’obiettivo di Martha Cooper, in un’azione di tutela e memoria. In un contesto in cui la Street Art è per sua natura effimera e vulnerabile, quanto è importante proteggerla?
«Non tutti i miei murales devono per forza resistere nel tempo. Il formaggetto che copre la svastica ha valore per il messaggio, ma ne ho fatti centinaia, non merita una conservazione. Altri pezzi invece veicolano messaggi più complessi, come il MiTile Ignoto che ho realizzato a Collemarino, ad Ancona: una denuncia dell’inquinamento dei mari, che colpisce per primi i militi. In questo caso, i ragazzi del posto se ne prendono cura e lo restaurano periodicamente.
L’arte urbana non è per sempre, spesso ha senso solo qui e ora. Poche sono le opere nate in strada che meritano davvero tutela e conservazione. Anche perché, spesso, il restauro non è neanche possibile. Al momento credo che la fotografia sia il miglior modo per conservarle nel loro contesto originale».

Abbiamo parlato di “restauro” di murales vandalizzati: che significato ha per te questo gesto?
«Le città sono organismi viventi, mutano alla velocità della luce. L’arte urbana lo sa e in parte se ne nutre e in parte ne è vittima. Nel mio caso c’è anche l’aggravante di dare fastidio a persone intolleranti, che accelerano questo processo vandalizzando ripetutamente i miei murales. Sistemarli vuol dire resistere, non accettare la violenza e l’odio, opporsi col sorriso. Negli anni ho imparato a usare il loro odio come ingrediente nei miei pezzi, spesso progettandoli sapendo che sarebbero stati rovinati. Vere e proprie ricette da muro.
Da solo sono riuscito a fare la differenza a Verona: dopo anni, ora spesso rinunciano al loro simbolo e si limitano a scarabocchiare. Chi vive la strada sa che il simbolo è tutto. Se rinunci, dichiari la tua sconfitta. Nonostante la scocciatura dei murales rovinati, posso dirmi soddisfatto: l’obiettivo era far sparire svastiche e celtiche».

Vista la collaborazione con Martha Cooper, pensi che l’arte urbana oggi sia più vicina al museo o alla strada?
«L’arte urbana, per definizione, appartiene alla strada e alle persone che la vivono. Come ogni movimento artistico, però, può evolversi e arrivare anche nei circuiti più tradizionali come gallerie, musei e fiere. Per me la chiave è non perdere nulla per strada, in tutti i sensi.
Bisogna mantenere vivo il messaggio e l’intento anche dentro gli spazi espositivi. Le gallerie permettono livelli di approfondimento che la strada non consente: in strada hai una frazione di secondo per catturare l’attenzione, in mostra hai tempo e strumenti per riflettere. In strada devi essere accessibile a tutti.
Il fatto che la Street Art sia arrivata nei musei ha aiutato la sua diffusione, e anche noi artisti. Ma a volte si vedono forzature che non rendono giustizia al nostro linguaggio. Credo che BEST BEFORE sia riuscito a trovare un equilibrio e insieme a Sara abbiamo provato a portare in mostra l’essenza dell’arte urbana».


In Italia, la questione del copyright nella Street Art è ancora un terreno grigio, con artisti spesso costretti a lottare per difendere le proprie opere. In questo progetto per ogni murales ci sono le firme di due artisti. Come vedi il futuro della Street Art in questo contesto?
«Credo ci sia ancora tanto lavoro da fare: la questione è molto complessa. L’opera in strada, in un certo senso, diventa di tutti. A Lubiana, ad esempio, fanno un tour a pagamento per vedere i murales di Invader. Ma dubito che Invader prenda qualcosa da quei tour. Fa parte del gioco. È diverso quando qualcuno si appropria della tua proprietà intellettuale e la rivende come sua: lì, per fortuna, ci si può ancora difendere».




BEST BEFORE. Street Art Against a Rancid Future, la mostra fotografica con gli scatti di Martha Cooper che documentano la performance collettiva ideata da CIBO e realizzata segretamente nel marzo scorso, sarà visitabile fino al 29 giugno 2025, al Forte Sofia di Verona.