21 ottobre 2023

Il chiaro e l’oscuro per un Caravaggio contemporaneo, la pièce a Sant’Arcangelo

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A Santarcangelo di Romagna e a Bari, va in scena una pièce che dà corpo, voce e passione a Caravaggio, regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi, con Luigi D'Elia, su testo di Francesco Niccolini: ne parliamo con loro

Luigi D'Elia, Caravaggio, ph Michela Cerini

Sarà un inedito Caravaggio quello che la penna del drammaturgo Francesco Niccolini ha “dipinto” nel suo nuovo lavoro, dal titolo Caravaggio. Di chiaro e di oscuro. E ancora una volta, come per altri testi su grandi e piccoli personaggi della storia trasposti in scena, lo “scrivano” aretino ci appassionerà e sorprenderà. A dare corpo e voce a Michelangelo Merisi da Caravaggio sarà il fedele compagno di viaggio Luigi D’Elia, diretto da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, coppia artistica del teatro italiano che per la prima volta si cimentano nella regia di un monologo. A tutti loro, in vista del debutto in anteprima a Santarcangelo di Romagna (RN), il 26 ottobre, e in prima nazionale, il 29 ottobre, al Teatro Kismet a Bari – poi in tournée in tutta Italia –, abbiamo chiesto di parlarcene.

Luigi D’Elia, Caravaggio, ph Michela Cerini

Niccolini, anche lei, come scrittore, non si è sottratto al fascino di un uomo e artista come Caravaggio. Da quale spunto, idea, ispirazione nasce il suo Caravaggio?

«Ho una passione sfrenata per fine Cinquecento e inizio Seicento. Ho scritto spettacoli su Galileo, Cervantes, Molière, san Giuseppe da Copertino, Carlo Gesualdo principe di Venosa: è la mia epoca preferita, sono gli anni in cui si compie la più sconvolgente rivoluzione di pensiero e di religione di ogni tempo (dalla Riforma alla Rivoluzione copernicana), è un’epoca di violenza, smarrimento e passioni ardenti. In questo mio viaggio a tappe in quegli anni non poteva mancare Caravaggio, anzi: forse è finalmente il punto d’approdo. Il più alto e sublime che potessi desiderare. E il più disperato».

Francesco Niccolini

Cosa ha voluto raccontare di lui, oltre a quello che già si conosce? L’artista, l’uomo, o cosa? Da quale prospettiva?

«Ho indagato cercando di superare i luoghi comuni, perché purtroppo la nostra conoscenza – di solito – è fatta di superficialità e anniversari: di Caravaggio al massimo sappiamo che era rissoso, omosessuale e che è morto male, dopo una vita di eccessi, un assassinio e dopo aver introdotto un nuovo uso della luce nella pittura. La sua realtà è immensamente più complessa, profonda e variegata, non riconducibile a queste formule: la cosa più clamorosa per me è stata scoprire e raccontare che, rispetto agli uomini del suo tempo, non era affatto più violento degli altri. Anzi: esco da questo lavoro con l’idea che Caravaggio sia stato un uomo capace di rispettare le donne molto più dei suoi contemporanei.

L’altra grande sorpresa è stata scoprire tre storie d’arte, sesso e amore con tre prostitute che sono state le sue modelle. In particolare quella che io ritengo una grande storia d’amore con una delle tre, tale Lena. Attraverso queste tre donne e gli altri modelli principali (in particolare il celebre Cecco, suo fedele compagno per molti anni e disavventure), ho provato a entrare in qualche quadro, per mettere Luigi nella condizione di diventare quadro. La cosa che mi emoziona molto nello spettacolo è proprio quando riconosco nelle sue posture, nei colori, nelle luci e nelle ombre, qualche dettaglio delle opere di Caravaggio».

Cosa c’è di chiaro e di oscuro nel suo Caravaggio, come dal sottotitolo?

«C’è passione ardente, febbrile. C’è talento e c’è distruzione, soprattutto autodistruzione. Non c’è calcolo ma innamoramento, rabbia e voglia di vivere senza convenzioni, “Senza tetto né legge”, citando il titolo di un film capolavoro di Agnès Varda. C’è voglia di gridare la rabbia, di denunciare un mondo infame, fatto di violenza e soprusi, e all’opposto la bellezza dell’arte, del piacere, della giovinezza, la forza irrefrenabile del desiderio: senza giudizio, senza ipocrisie, senza limiti. Ci sono piedi sporchi e caviglie gonfie, stanchezza e brividi di febbre, fame e morte, l’immensa distanza tra cielo e terra, e al tempo stesso il divino a un passo: parlo da una parte di quell’abisso che non permette all’angelo delle Sette opere di misericordia di arrivare a sfiorare la sofferenza terrena, e dall’altra parte il meraviglioso angelo che, di spalle, suona il violino per Giuseppe e Maria sfiniti, con il bimbo dormiente e l’asino che quasi commosso ascolta dietro a Giuseppe. Ecco: nell’occhio di quell’asino innamorato della musica celeste, io mi smarrisco, e mi batte il cuore».

Luigi D’Elia, Caravaggio, ph Michela Cerini

D’Elia, che approfondimento ha fatto del personaggio e cosa ha scoperto che non sapeva già, né immaginava di Caravaggio? E cosa, del testo di Niccolini, l’ha maggiormente colpita, tanto da farsene carico come interprete?

«In realtà abbiamo lavorato su un filo: nello spettacolo io potrei essere un testimone che conosce Caravaggio da molto vicino, anche nel tempo, come se fosse appena andato via in quinta, un suo modello forse. E che lo ama, molto. Ma potrei anche essere Caravaggio stesso. E man mano che lo spettacolo avanza questo filo scompare fino a raggiungere un amalgama probabilmente con la “storia” stessa, più che con un personaggio in particolare. In certi momenti invece sprofondo totalmente e senza paracadute in Caravaggio e lì si precipita. Ho passato ore davanti ai dipinti di Caravaggio per prepararmi. Da vicinissimo per vederne le pennellate, da lontano per vederne la luce. Ogni volta attirandomi il fastidio di tutti quelli che avevo intorno. Succede anche ora. Occupo totalmente la tela, non mi importa che gli altri non possano vedere e mi infastidisce sentire i loro commenti, anche solo sentirli parlare. È successo fino a ieri, domenica 15 marzo, davanti alla Cena in Emmaus di Brera. E poi ho letto molte biografie. Francesco studia una quantità enorme di materiali e su alcuni di questi riesco a stargli dietro. Il resto dell’alchimia, a parte quest’amore viscerale, è venuto fuori grazie ai registi durante le prove. Lì con loro sono accadute le scoperte che ci hanno sorpreso maggiormente. Tra tutte forse una grande tenerezza. Questa sì, era inaspettata.

Del testo di Francesco probabilmente la cosa che mi ha più colpito è stato l’affresco del tempo: le fiamme, il Seicento, Roma, cosa accadeva intanto lassù nel cielo e giù per le strade più sudicie. È stato come se avessi visto tutto quello con gli occhi di un ragazzino che arriva per la prima volta nella metropoli più vulcanica del Pianeta. Probabilmente la stessa cosa che deve essere accaduta a Michelangelo al suo arrivo a Roma. Anche se allora lui aveva già vissuto l’equivalente di cinque vite mie».

Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Ph Antonio Parrinello

Vetrano e Randisi, per la prima volta che vi cimentate nella regia di un monologo. Lavorare in due cosa ha comportato nel lavoro con l’attore e l’autore? Che tipo di indicazioni avete dato al primo e ricevuto dal secondo?

«Sono quasi cinquant’anni che lavoriamo insieme sia come attori che come registi. Quando iniziamo un nuovo lavoro, gli attori sanno che non avranno un solo regista a dirigerli ma due, con lo stesso disegno scenico ma con due voci differenti, e con la possibilità quindi di ricevere la stessa richiesta da due angolazioni diverse, che arricchiscono e rendono più sfaccettate quelle stesse indicazioni. Agli attori, e così abbiamo fatto con Luigi, chiediamo sempre una grande verità scenica, credibilità assoluta; ogni gesto, ogni parola, ogni passo dev’essere necessario per il racconto. Il primo referente della storia che vuoi raccontare devi essere sempre te stesso. Francesco Niccolini ci ha sempre lasciato assoluta libertà scenica, nel rispetto della sua drammaturgia, sapendo che deve necessariamente passare attraverso un’altra visione, quella del regista, in questo caso due… Noi mettiamo in scena dei sogni, così come Francesco, da scrittore, quando scrive. Nei sogni ci auto-dirigiamo, così come fa un poeta quando scrive, ma la riproposizione dello stesso sogno deve attraversare altre visioni, quella di chi lo rivive, l’attore, e quella di chi lo dirige. Francesco ci regala sogni suoi, e noi cerchiamo di farli vivere e apparire».

Il sodalizio artistico con Niccolini è in atto da tempo, avendo messo in scena diversi suoi testi. Cosa vi accomuna? Quale sintonia d’intenti?

«Con Niccolini siamo legati dalla stessa visione e amore per il teatro di ricerca, che scava in maniera profonda nelle parole e nell’essere. In questo lavoro su Caravaggio la grande scommessa è stata parlare di Caravaggio attraverso i suoi quadri e dai suoi capolavori affiora la sua stessa vita. Quei quadri hanno bisogno della sua rabbia, del suo dolore delle sue ansie e guardandoli puoi scorgere i suoi pensieri nell’atto creativo, la sua pietas, la sua umanità. Coincidenza straordinaria fra arte e vita».

Anche a voi la domanda: che approfondimento avete fatto del personaggio e cosa avete scoperto che non sapevate già, né immaginavate?

«Chiaramente ci siamo documentati su Caravaggio, la sua vita e le sue opere, sui tanti che ne hanno scritto, ma la scoperta più grande sono stati i suoi quadri, visti centinaia di volte ma ora, descritti dalle parole di un racconto, dall’emozione di un attore, da Luigi che diventa Caravaggio nel momento della creazione, appaiono diversi: i suoi ritratti, quella luce filtrata dal buco sul soffitto che cade su soggetti illuminati per metà, la pennellata data con rabbia o con dolcezza ci permettono di entrare nella sua Bottega di artista e nella sua anima. In un museo vedo un quadro e posso stare ore a guardarlo, in teatro subentra lo stupore delle emozioni che nascono nel momento in cui vengono raccontate. È come vedere un quadro al microscopio: attraverso le parole che lo raccontano si espande e viene fuori un dolore vicino, la gioia, la povertà, quei piedi nudi e sporchi esibiti per la prima volta in un quadro, la tragedia della vita del Cristo e dello stesso Caravaggio. Questo spettacolo è un viaggio nella nostra memoria, in cose che abbiamo visto e poi dimenticato, di cui scopriamo nuovi aspetti, nuovi particolari, nuove emozioni».

Luigi D’Elia, Caravaggio, ph Michela Cerini

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