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08
ottobre 2008
fino al 12.X.2008 Atelier van Lieshout Torino, Fondazione Sandretto
torino
Una città altamente produttiva e perfettamente ecocompatibile. Un paradiso ritrovato? No, una città di schiavi, un lager iper-moderno. Nel progetto dell’Atelier olandese, i vizi delle virtù. O una prigione in veste nemmeno troppo inedita...
Nelle utopie negative si è soliti affrescare un mondo perfettamente organizzato eppure infelice, iperrazionale eppure asfissiante, ipertecnologico eppure umanamente misero. Dal 2005 l’Atelier van Lieshout (Rotterdam, 1995) porta avanti il progetto Slave City, un “lager” in forma di città moderna, in cui ciascuno di noi svolge il ruolo d’ingranaggio. La definisce “un campo di concentramento futurista”, totalmente autosufficiente e a impatto zero sull’ambiente. Ospita 200mila persone e produce utili per 7,8 milioni l’anno.
Una città che in realtà è un’azienda e di cui Boardroom rappresenta la stanza dei bottoni. Ospitata nella project room della Fondazione torinese e nell’ambito di YouPrison – l’interessante mostra curata da Fancesco Bonami e dedicata al topos della prigione – il progetto espone il luogo in cui i direttori dei dipartimenti si ritrovano a cena, con “istantanee” disegnate sulle stoviglie relative alle attività e agli intrattenimenti di Slave City, come la selezione, la sicurezza, il trapianto degli organi, la macelleria, il riciclo, le arti e la cultura.
“Gli abitanti vivono divisi per genere e lavorano sette ore al giorno negli uffici e successivamente sette ore nei laboratori, o nei campi, godendo di tre ore di riposo prima di sette ore di sonno. Benché il regime non permetta ai suoi abitanti alcuna indipendenza, questa città è totalmente autosufficiente e a ‘impatto-zero’, riciclando tutti i rifiuti e usando gas naturali: un paradiso ecologico, un inferno morale”. La critica al turbocapitalismo e all’ecologismo di facciata è implicita nel progetto di una città che intreccia arte e architettura per ottenere una rappresentazione efficace dell’utopia negativa, che AvL presenta come ipotetica “immagine della nostra contemporaneità”.
La caricatura della bioarchitettura, del razionalismo e della taylorizzazione della società sono finalizzate a criticare i valori consolidati di un modo di progettare orientato esclusivamente al profitto. Slave City è un organismo autosufficiente, con edifici al posto degli organi e a forma di organi, come dimostrano il modellino del museo cittadino (Model Museumgestor), che riproduce un grande intestino, o il supermercato (The Mall), simile a un brandello di colonna vertebrale. Lo humor nero di AvL si percepisce nelle sagome d’uomini appese alla parete come decorazione murale (Walldecoration) o negli enormi call center che riprendono le unità d’abitazione di Le Corbusier.
Il progetto si spinge fino a modellare l’impianto di tubi e cavi che alimentano la città (Network Pipes & Cables), mentre alle pareti fanno capolino planimetrie della città e rendering di bordelli e università degli schiavi.
Una città che in realtà è un’azienda e di cui Boardroom rappresenta la stanza dei bottoni. Ospitata nella project room della Fondazione torinese e nell’ambito di YouPrison – l’interessante mostra curata da Fancesco Bonami e dedicata al topos della prigione – il progetto espone il luogo in cui i direttori dei dipartimenti si ritrovano a cena, con “istantanee” disegnate sulle stoviglie relative alle attività e agli intrattenimenti di Slave City, come la selezione, la sicurezza, il trapianto degli organi, la macelleria, il riciclo, le arti e la cultura.
“Gli abitanti vivono divisi per genere e lavorano sette ore al giorno negli uffici e successivamente sette ore nei laboratori, o nei campi, godendo di tre ore di riposo prima di sette ore di sonno. Benché il regime non permetta ai suoi abitanti alcuna indipendenza, questa città è totalmente autosufficiente e a ‘impatto-zero’, riciclando tutti i rifiuti e usando gas naturali: un paradiso ecologico, un inferno morale”. La critica al turbocapitalismo e all’ecologismo di facciata è implicita nel progetto di una città che intreccia arte e architettura per ottenere una rappresentazione efficace dell’utopia negativa, che AvL presenta come ipotetica “immagine della nostra contemporaneità”.
La caricatura della bioarchitettura, del razionalismo e della taylorizzazione della società sono finalizzate a criticare i valori consolidati di un modo di progettare orientato esclusivamente al profitto. Slave City è un organismo autosufficiente, con edifici al posto degli organi e a forma di organi, come dimostrano il modellino del museo cittadino (Model Museumgestor), che riproduce un grande intestino, o il supermercato (The Mall), simile a un brandello di colonna vertebrale. Lo humor nero di AvL si percepisce nelle sagome d’uomini appese alla parete come decorazione murale (Walldecoration) o negli enormi call center che riprendono le unità d’abitazione di Le Corbusier.
Il progetto si spinge fino a modellare l’impianto di tubi e cavi che alimentano la città (Network Pipes & Cables), mentre alle pareti fanno capolino planimetrie della città e rendering di bordelli e università degli schiavi.
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dal 18 settembre al 12 ottobre 2008
Atelier van Lieshout – Boardroom (Slave City)
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Via Modane, 16 (Borgo San Paolo) – 10141 Torino
Orario: da martedì a domenica ore 12-20; giovedì ore 12-23
Ingresso: intero € 5; ridotto € 3; gratuito il giovedì ore 20-23
Info: tel. +39 0113797600; fax +39 01119831601; info@fondsrr.org; www.fondsrr.org
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