28 febbraio 2003

fino al 20.III.2003 Marco di Giovanni Verona, Arte e Ricambi

 
Tubature in lamine di ferro affiorano dal pavimento. Come un rudimentale sommergibile che cela dimensioni parallele dove strani personaggi si aggirano. Attori e complici, performano nella assurda abitazione arrugginita. E domani si replica…

di

Oltre l’oggetto, la scultura e l’installazione, la ricerca artistica di Marco di Giovanni (Teramo, 1976)
attiva un processo installativo che esula da una semplice invasione dello spazio per ridefinirlo e approdare alla sua radicale trasformazione. Uno spazio sinergico e aperto, attraente ed affascinante che non lascia scampo al visitatore: le tre installazioni site-specific realizzate per la mostra slabbrano gli spazi della galleria permettendo il dilagare del paradossale e surreale immaginario dell’artista. Marco di Giovanni_ Veduta parziale installazione_ 2003
Lamine di ferro, debitamente invecchiate ed arrugginite con un antico procedimento chimico, compongono una struttura rizomatica. Una sorta di abitazione cunicolare che attraversa parte di un’ala della galleria per sbucare dal pavimento, inserirsi nelle pareti, scomparire nel soffitto e offrirsi al visitatore sia come una forma/oggetto accattivante e suggestiva, sia come interfaccia per accedere (tramite alcuni spioncini) alla vita nascosta che pulsa nell’interno di questa curiosa unità abitativa. Gli ambienti sono ribaltati da una prospettiva creata ad hoc dall’artista grazie alle rifrazioni ottenute con un gioco di specchi e lenti che svelano i set di una performance messa in atto durante l’inaugurazione (un improbabile vichingo e la sua damigella si aggiravano nelle tubature che conducevano a due stanze nascoste, la performance verrà replicata il 1 marzo). Non è data nessuna trama, alcuna sceneggiatura: quello che conta è un intrattenimento non-sense, portato in scena in prima persona e con il coinvolgimento di attori e complici.
All’estremo opposto dello spazio, una sorta di grosso Marco di Giovanni_ Veduta parziale installazione_ 2003container sbuca dal soffitto abbassandosi fino al pavimento: anche in questo caso si tratta di un’ennesima interfaccia che mette in contatto la galleria con un loculo solitario abitato da un pianoforte verticale, strumento questo adoperato nella seconda performance della sera inaugurale. Unico appunto negativo riguarda l’ultima installazione in mostra composta da una serie di vecchie botti di legno da vino che nascondono –osservabili sempre tramite piccoli visori- dei sentieri in terra battuta ma che in sostanza si risolvono nell’elaborazione di meccanismi puramente illusionistici ed autoreferenziali.
Ma l’impressione generale lascia ben sperare. Marco di Giovanni allarga il suo orizzonte operativo azzardando un avvicinamento alle recenti ricerche di due ipotetici fratelli maggiori (Gregor Schneider e John Bock), ragionando sullo spazio con installazioni sempre più sofisticate e avvalendosi dell’elemento performativo, per oltrepassare in tal modo i grossi limiti patiti nella sua fase iniziale di ricerca.

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marco altavilla
mostra vista il 6 febbraio 2003


Marco di Giovanni
Verona, Arte e ricambi, via Cesari 10
A cura di Alberto Zanchetta; testo in catalogo di Alfredo Sigolo
Periodo: 2.II-20.III.200; sabato 1 marzo replica della performance e presentazione del catalogo
Info: tel 045-529035 o 347-1422931, fax : 045-8403684; mail: artericambi@yahoo.it
Orari galleria: 17:30 – 20:00 dal mercoledì al sabato.
domenica e lunedì su appuntamento; www.artericambi.org


[exibart]

8 Commenti

  1. Solo per aggiungere che la performance di domani non sarà esattamente una replica. Per la prima volta, infatti, l’artista sarà fuori dall’installazione… vedremo a chi toccherà murarsi dentro.

  2. Trattandosi com’è vero di una recensione e non di un articolo (di critica d’arte), il commento di Marco Altavilla si limita a un’interpretazione – e così pure a un linguaggio – didascalico. Limitandosi a descrivere più che a comprendere le implicazioni dell’opera di Marco Di Giovanni non serprende se interpreti le botti negativamente, tacciandole di far ricorso a meccanismi “puramente illusionistici ed autoreferenziali” [forse che l’arte non è, soprattutto nell’ultimo secolo, stata proprio questo? che abbia voluto essere essatemente questo?…]. Aggettivi come “accattivante” e “attraente” sono la dimostrazione di uno sguardo superficiale, limitato oltre che limitante per chi legge? forse per supplire a parole quali ‘bello’ o ‘interessante’ che ormai tradiscono l’inanità del giudizio?
    Rasenta poi la burla definire “improbabile vichingo” e “damigella” l’artista e la sua compagna… soprattutto se si tende a ricondurre tutto a un “intrattenimento non-sense” in cui non v’è “data nessuna trama [..] alcuna sceneggiatura”, perché in tal senso si compie l’errore più grossolano, travisando in pieno l’opera di Di Giovanni. Non si tratta di cinema, Tv o teatro, quelli non sono “attori” da soap-opera ma persone, ed è per questo che non recitano a ‘braccio’ nè a ‘canovaccio’, ma coinvolgono lo spazio e il pubblico. Essi instaurano un dialogo aperto, e per quanto è loro possibile essere, sono veritieri…
    Ad Altavilla bisogna però dar merito della suggestiva frase che vuole la ruggine ori(gi)nata da “antico procedimento chimico”… Sinceramente, A. Fabris.

  3. Beh, io sono contento che questa recensione sia toccata ad Altavilla, che non ha mai nascosto certe sue riserve sul lavoro di Di Giovanni. Ecco, io credo che il riconoscimento della poetica dell’artista, la presa d’atto delle innegabili e positive novità che questo progetto contiene, siano segni di grande onestà intellettuale. Per quanto concerne le botti, io credo che l’opinione di Marco possa essere, tutto sommato, condivisa: la botte conserva degli accenti autoreferenziali (la botte è botte) che forse potrebbero essere con successo accantonati. Questo evento doveva essere una sorta di compimento di una fase di ricerca dell’artista, passata attraverso le sue mostre degli ultimi 2-3 anni. Invece ha finito per aprire strade di ricerca decisamente nuove:
    1. la struttura non è più vincolata dallo spazio ma è lei stessa a determinarlo, a riformularlo.
    2. l’idea del tubo-sarcofago qui ha lasciato il campo all’idea del tubo-confine, tra piani di realtà che interagiscono tra di loro. Al di là dell’oculare ora si apre uno spazio decisamente più articolato, che non si limita alla presenza di un referente ma diventa abitabile, perfino narrativo, se per narrazione intendiamo la serie disordinata di accadimenti, microstorie frammentarie. Se prima c’era sempre l’iniziale dubbio di aver a che fare con un video, ora questa sensazione è ancora più forte, almeno fino a che non ci si rende conto che ciò che sta al di là si sta rivolgendo proprio a noi che l’osserviamo.
    3. nelle installazioni presenti si pone ora come determinante il residuo, il paesaggio che resta dopo la performance, ed ogni visione residuale deve essere studiata per i meccanismi evocativi che innesca.
    4. in uno spazio aperto come quello veronese, l’artista ha preso consapevolezza della necessità di lavorare sull’estetica della struttura, la sua forma nello spazio. Esiste ora, insomma, un’attenzione verso equilibri che prima erano trascurabili e accessori.
    5. in ultimo il suono: prima esso era generato dalla “pelle” della struttura (gli scuotimenti, i colpi secchi, ecc.); ora il suono è generato nell’al di là; pensate alle improvvisazioni del pianista murato vivo: suonerebbe le stesse cose se fosse fuori da quell’ambiente chiuso, semioscuro e soffocante? La sezione del tubo fa da cassa armonica e, per il performer, è come stare sotto una campana mentre la si suona. E’ musica claustrofobica quella che si sente da di fuori…

  4. Stavo leggendo il romanzo LA PELLE di Curzio Malaparte e mi è caduta all’occhio una frase: “Era il tramonto, e il mare prendeva a poco a poco il colore del vino, che è il colore del mare in Omero”.
    Il pensiero è subito volato a Di Giovanni, alle sue tubature idriche in cui non scorre più l’acqua ma il sapore/odore del mosto…
    [come non ri-pensare alla trasformazione dell’acqua in vino, e da quì alla transustanziazione del Cristo?].

    dedicato a Marco! artista e amico.

  5. Bene bene…ora il curatore/critico “Zank” da strapazzo che si permette di citare in maniera così idiota un grande scrittore come Malaparte di cui ne evidenzia un lato purmanente superficiale…dopo il vino…il sapore del mosto ci mancano anche i tarallucci. Fortuna che almeno c’è la ragazza pon pon che supporta sta cosa alla”volemose bene”. Siceramente A. Fabris

  6. i greci descrivevano sempre il mare con i colori del vino. ma non il vino puro, quello mescato, perkè il vino puro era essenza troppo inebriante, quindi destinata solo ai Saturi.
    ulalà….

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