29 maggio 2017

SPECIALE VENEZIA

 
“Il potere dell’arte è incidere nella sensibilità di un’epoca”: parla Cinthia Marcelle, menzione per il Brasile alla Biennale
di Ana Laura Espósito

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Una griglia metallica rigida sollevata dal pavimento e leggermente inclinata accoglie lo spettatore. I rumori dei passi sulla grata di acciaio svelano tanto inquietudine quanto una più paziente esplorazione dell’opera in un’atmosfera d’incertezza. In essa, si incastrano sparse e senza ordine preciso piccole pietre di misure variabili. La sensazione d’instabilità indotta da questa struttura evoca, nella sua materialità, sistemi di ventilazione industriale o urbani. Chão de caça (2017) si intitola il progetto site-specific che Cinthia Marcelle (Belo Horizonte, 1974) ha creato per il Padiglione del Brasile nei Giardini della Biennale e che ha ricevuto una menzione speciale come partecipazione nazionale.
Curata da Jochen Volz (Braunschweig, 1971), nell’installazione coesistono interventi che modificano la percezione originale dell’ambiente insieme a dipinti, sculture e video, rivelando un linguaggio autonomo e maturato dagli esordi del suo percorso artistico iniziato negli anni 2000. Oggetti, azioni, gesti spaesati dal loro contesto abituale e riconfigurati attraverso l’atto creativo dell’artista per risorgere sotto una nuova sensibilità, sono senza dubbio aspetti basilari del lavoro dell’artista. Attraverso diversi media come la performance, i video e le installazioni, Marcelle riesce a tradurre in linguaggio visuale piccoli eventi, gesti della vita quotidiana che isola attraverso una acuta osservazione per divenire più tardi complesse riflessioni. Da queste percezioni di mondo nascono lavori accomunati di una esecuzione formale impeccabile in cui la ripresa dall’alto e la ripetizione come strategia creativa diventano parte della sua cifra stilistica. Sebbene le opere di Marcelle prendano spunto dal contesto in cui vive e lavora, il Brasile, oltrepassano le coordinate geografiche di gestazione per interpellare temi trasversali: si tratta di quesiti che attraversano i confini più superficiali e si fondono nell’uomo contemporaneo. 
Un clima di grande tensione politica assedia in questi giorni il Paese Sudamericano con le forze armate che scendono nelle strade. Anche se a volte vecchie battaglie e rivendicazioni sembrano ormai alle spalle, molti dei lavori presenti in “Viva Arte Viva” mettono al centro problematiche tutt’altro che risolte e accendono il dibattito sull’arte politica o impegnata. Anche su questo tema Marcelle ci racconta il suo punto di vista.
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Il nome dell’installazione è Chão de caça [Hunting Ground]. Perchè?
«Chão de caça è un luogo di attenzione e di tensione, che reagisce con vibrazioni e instabilità. Un modo di agire che ribalta il senso conosciuto o previsto. In portoghese “Chão de caça” è un termine inventato e ha un senso più complesso di quello a cui si può attingere dalla traduzione letterale inglese». 
Potresti descrivere il processo creativo dietro Chão de caça per il Padiglione del Brasile?
«Il mio punto di partenza è stato lo spazio, il luogo, il contesto, il qui e ora. Ho visitato il padiglione brasiliano nel mese di gennaio del 2017. Stando lì ho pensato ad alcune questioni che erano già parte del mio repertorio di lavoro. Altre aspetti sono nati proprio a partire di quel primo incontro. Se poi si pensa al momento attuale del Brasile, al golpe che stiamo soffrendo contro la democrazia, questa nostra “occupazione” del Padiglione può essere anche un modo per ribadire queste problematiche». 
Puoi spiegarci più in dettaglio le problematiche alle quali ti riferisci e che sono sottointese nell’installazione?
«Chão de caça ha a che fare con la creazione di uno spazio in squilibrio, una zona di instabilità, un territorio di incertezza, con i rapporti tra interno ed esterno, arte e spettatore, costrizione e libertà, ordine e follia, infine…con gli oggetti e le loro ombre. C’è poi in mostra nel padiglione il video del cineasta Tiago Mata Machado Nau (Now) – di cui sono co-autrice e con cui lavoro da molto tempo. Il film è una specie di allegoria sulla fine del concetto di nazione». 
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Nelle tue opere la ripetizione è una sorte di mantra. Quale aspetto particolare del tuo lavoro cerchi di sottolineare attraverso questa strategia?
«Concepisco il processo del mio lavoro come un rituale. Una sorta di rituale in cui possiamo raggiungere la trance attraverso la ripetizione. Nella reiterazione del gesto si scopre una nuova configurazione delle cose, piccoli spostamenti che si accumulano e lasciano sedimenti. La ripetizione tende a produrre nuovi modelli, instaurare un nuovo ordine. C’è qualcosa della fatica di Sisifo nella ripetizione dei gesti nel mondo del lavoro: dislocati dai loro contesti questi gesti ordinari producono, nella loro inutilità, una nuova forma di occupazione del tempo. La reiterazione serve a computare il tempo, la durata, l’intervallo in cui si svolge un’azione. Ma c’è anche una volontà di iscrivere la ripetizione di un gesto manuale in mezzo a uno meccanico e industriale, sovvertendo in qualche modo il funzionamento di un sistema». 
Quale è la tua impressione su questa Biennale? Quali sono le opere o gli artisti che ti hanno maggiormente colpito?
«Ha particolarmente catturato la mia attenzione il modo in cui il concetto centrale della Biennale, “Viva Arte Viva”, è stato introdotto nel padiglione centrale dei Giardini con il lavoro fotografico Artist at work e Artist at work [again] di Mladen Stilinovic, e tutta quella carica di esperienza di vita degli anni ’70 e la fusione tra arte e vita. Questi lavori sono stati articolati con opere più recenti come The sun, the moon, the stars (2017) di Dawn Kasper e Lake Valley (2016) di Rachel Rose, il tutto con una grande potenza, vertiginosa e spirituale». 
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Potresti menzionarmi alcuni artisti che segui o a cui sei particolarmente interessata?
«Mi interessano le inquietudini di artisti come Sara Ramo e Dineo Seshee Bopape e il modo in cui gestiscono in forma libera il loro processi creativi mantenendo, allo stesso tempo, un rigore concettuale straordinario. C’è un forte impegno politico nel lavoro di questi due artisti che sollecitano più l’aspetto sensibile che quello esplicativo». 
L’arte è politica? Come concepisci il rapporto tra questi termini?
«Le pratiche artistiche sono già percezioni del mondo che si articolano in modi di fare e forme che diventano visibili. Credo che la vera politica dell’arte, il suo possibile coinvolgimento nel mondo, si svolge nel piano del sensibile come una permanente riconfigurazione del simbolico di un determinato tempo. Il potere dell’arte è quello di incidere nella sensibilità di un’epoca». 
Ana Laura Espósito

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