17 settembre 2009

APOCALYPSE NOW (FORSE)

 
di florian mussgnug

Ve l’immaginate Londra, abbandonata, ridiventare una palude? O la Torre Eiffel infestata da alberi e rampicanti? Ve l’immaginate, insomma, il mondo senza di noi? Da più di un secolo versioni quasi identiche della fine sono state descritte dagli autori di science fiction. C’è da preoccuparsi?...

di

Sulla
copertina di un bestseller di qualche anno fa, The World Without Us (2007) di Alan Weisman, si
possono vedere le rovine di tre simboli dello spazio urbano – Trafalgar Square,
la Torre Eiffel, la Sagrada Familia – circondate da una distesa infinita di
alberi giganteschi. Che cosa accadrebbe, si chiede l’autore, se gli esseri
umani scomparissero oggi dalla terra? Look around you, at
today’s world. Your house, your city. The surrounding land, the pavement
underneath, and the soil hidden below that. Leave it all in place, but extract
the human beings.
Wipe us out, and see what’s
left
”.
È
pressoché impossibile, scrive Weisman, immaginare una città contemporanea senza
di noi, pensare che i suoi monumenti colossali, costruiti dall’uomo, potrebbero
un giorno essere inghiottiti dalla natura. E tuttavia, quell’“è impossibile
dire” è solo un trucco del mestiere: una delle più consolidate convenzioni del
genere, secondo cui l’angoscioso indicibile viene racchiuso in una formula
prevedibile e familiare. Dopotutto, l’ardito esperimento mentale di Weisman
fornisce esattamente ciò che descrive come impossibile: una descrizione
dettagliata e quasi pedante di uno spazio urbano senza presenze umane.
La
descrizione di un’immaginaria Manhattan del futuro – cinque, duecento,
centomila anni dopo l’homo sapiens – deve molto alle conoscenze specialistiche di
architetti, botanici e ingegneri, ma anche all’infinita proliferazione, nella
cultura americana di massa e soprattutto nel cinema, di mondi distopici,
apocalittici e post-apocalittici [2].
Lisbona post-apocalittica
Come i
suoi equivalenti letterari e contrariamente a quanto dichiara l’autore, The
World Without Us
dimostra
come la futurologia possa diventare una scienza relativamente semplice: è più
facile fare profezie su cemento, vetro e acciaio che su quelli che Angela
Carter chiama “the fragile marginalia of our dreams” [3].
Laura
Spinney, giornalista britannica che scrive per “The New Scientist”, arriva alla
stessa conclusione in un articolo del 1996 intitolato Return to Paradise. Se Londra domani venisse
abbandonata, scrive, sappiamo che ci vorrebbero duecentocinquanta anni perché la città
torni a essere la palude che era un tempo: il Tamigi, senza argini, scorrerebbe
libero tra le fondamenta degli edifici crollati, mentre i ponti cederebbero
sotto il peso dell’edera cresciuta a dismisura [4].
È
significativo che da più di un secolo versioni quasi identiche della fine siano
state descritte dagli autori di science fiction: da After London or Wild
England
(1885) di
Richard Jefferies, dove un gruppo di giovani intraprendenti in una Inghilterra
post-apocalittica e feudale parte a esplorare le vaste e terrificanti paludi
che si estendono dove “in the days of the old world there flowed the river
Thames
”, a The
Drowned World

(1962) di J.G. Ballard, fino a A Scientific Romance (1997) di Ronald Wright, che
immagina un Tamigi bordato di palme e opulenti mangrovie, che si tuffa in un
tropicale Mare del Nord [5].
C’è poco
da temere – e forse poco interesse – in queste visioni terribilmente
sintetiche, inquietanti, ma anche trasparenti, del futuro. La loro
straordinaria coerenza tematica ed estetica ignora la complessità della vita
sociale reale e non dà conto della nostra quotidiana esperienza della storia e
della società come di un caos spiazzante di forze contraddittorie e
indiscernibili. Varsavia senza di noiCome scrive Fredric Jameson, la scrittura
utopica è efficace quando è innescata da un problema sociale specifico: “It
must respond to specific dilemmas and offer to solve fundamental social
problems to which the Utopian writer believes himself to hold the key
” [6].
Nella
lontana Londra tropicale della finzione apocalittica, invece, i problemi
sociali attuali non sono più riconoscibili, e l’intricata trama della vita
urbana è poco più che una vuota decorazione, una maschera distorta, o forse un
comodo pretesto: una convenzione utilizzata solo per far da contrasto alla
visione deliberatamente e audacemente antistorica del futuro.
Possiamo
non essere d’accordo con la controversa analisi di Jameson sul significato
politico della science fiction – con la sua insistenza sul fatto che la vera
scrittura utopica non è mai wish-fulfillment, ma critica del presente – ma il
suo argomento principale non è facilmente contestabile: lo spazio immaginario
della scrittura utopica è un’enclave dentro il mondo reale. Autonoma solo apparentemente, la
scrittura utopica non fa altro che rispondere al contesto sociale che l’ha
originata, contesto che essa mira sia a sovvertire che a fare nuovamente suo.
In altre parole, la scrittura utopica e apocalittica occupa lo spazio
ambivalente di una temporalità elastica, che Malcolm Bowie, citando le Confessioni di Sant’Agostino, descrive come “the
present of future things
”, o “dynamic futurity” [7].
Tornando
alla città senza di noi – l’esempio da cui siamo partiti -, ciò significa che
la letteratura apocalittica raggiunge il massimo dell’efficacia e della potenza
quando tratta il suo tema principale (la fine della vita e la perdita del
senso) non come una precondizione ma come un processo. A definire l’apocalisse
letteraria, in altri termini, non è l’ossessione della fine – catturata nella
felice definizione di Frank Kermode, “sense of an ending” – bensì un perdurante senso di
perdita: il lento ma inevitabile passaggio dalla brulicante vita cittadina alla
solitudine e al silenzio, il lungo, lunghissimo addio alla vita [8].

[1]
Alan Weisman, The World Without Us
, Virgin Books, London 2007, p. 4.
[2] Per
una ricca introduzione alla cultura post-apocalittica nordamericana cfr.
Spencer R. Weart, Nuclear Fear. A History of Images, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.)-London 1988.
Si veda anche Paul Brians, Nuclear Holocausts. Atomic War in Fiction 1895-1984, Kent State University Press,
Kent (Ohio)-London 1987, e Paul Boyer, When Time Shall Be No More. Prophecy
Belief in Modern American Culture
”, Harvard University Press, Cambridge
(Mass.)-London 1994.
[3]
Angela Carter, The Infernal Desire Machines of Doctor Hoffman
, Penguin, London 1986,
p. 19.
[4]
Laura Spinney, Return to Paradise
, “New Scientist”, vol. 151, n.
2039, 20 luglio 1996, p. 26.
[5]
Richard Jefferies, After London or Wild England
, The Echo Library, Cirencester
2005, p. 26. Come ha dimostrato Patrick Parrinder, la valle del Tamigi è un
tipico scenario di eventi apocalittici nella narrativa ottocentesca. Cfr.
Patrick Parrinder, From Mary Shelley to The War of the Worlds: The Thames
Valley Catastrophe
, in David Seed (ed.), Anticipations. Essays on Early
Science Fictoon and its Precursors
, Liverpool University Press, Liverpool 1995, pp.
58-74.
[6]
Fredric Jameson, Archeaologies of the Future. The Desire Called Utopia and
Other Science Fictions
, Verso, London-New York 2005, p. 11.
[7]
Malcolm Bowie, Psychoanalysis and the Future of Theory
, Blackwell, Oxford
1993. La felice definizione che Darko Suvin ha dato della science fiction come “literature
of cognitive estrangement
” sottolinea in maniera analoga la rilevanza del contesto
sociale. Cfr. Darko Suvin, Metamorphoses of Science Fiction
, Yale University
Press, New Haven 1979, parte I.
[8]
Frank Kermode, The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction
, Oxford University
Press, Oxford 1966.

florian
mussgnug

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 58. Te l’eri perso? Abbonati!


Questo
articolo si basa su un intervento tenuto nell’ambito di “Synapsis 2008”
(Certosa di Pontignano, Siena, settembre 2008). Una versione più ampia sarà
pubblicata nel 2010 sui “Quaderni di Synapsis”.


[exibart]

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