26 novembre 2017

La bellezza tra il sacro e l’umano

 
Considerazioni su un “distacco” che da diverso tempo pare insanabile: quello tra arte e committenza ecclesiastica. E se nella frattura si rivelasse un nuovo rapporto?

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Nel libro curato da Umberto Eco, “La Storia della Bellezza”, c’è un passo che dovrebbe farci riflettere molto. Riguarda i criteri di “bellezza” nel Medioevo, uno dei periodi che, se pur rivisto in chiave positiva dagli storici negli ultimi decenni, è stato a lungo considerato come un periodo di “crisi”, un periodo di mezzo, appunto, associato ad atmosfere cupe, tetre, ad assembramenti urbani e pestilenze; eppure, guardando le rappresentazioni artistiche e letterarie del tempo, non sembra che i coevi avessero di sé la medesima percezione.
Non è nostra competenza stabilire quali siano le correlazioni causali, ma è necessario altresì constatare come, particolarmente nel Medioevo, sussista la relazione tra il concetto divino e quello di “luce” e come la Chiesa, essendo tra i principali committenti artistici nella storia dell’arte, abbia influito sulla nostra elaborazione del concetto di bello.
Oggi che la Chiesa ha abdicato a questo ruolo, a favore di quello che una volta veniva definito come “potere secolare”, l’elaborazione del concetto di bello ha adottato nuovi criteri di rappresentazione, nuovi soggetti, nuove tecniche.
Questo grande cambiamento, che si inscrive all’interno di una serie di rivoluzioni altrettanto rilevanti per la recente evoluzione della storia dell’arte, ha sicuramente inciso sul ruolo, il livello di diffusione e i linguaggi stessi attraverso i quali gli artisti contemporanei interpretano la realtà.
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La Galleria della Carte Geografiche ai Musei Vaticani
L’attenzione della Chiesa all’arte ha avuto nella storia differenti motivazioni: dall’affermazione della supremazia di Dio nelle pale d’altare medioevali al richiamo della luce divina delle vetrate gotiche, fino all’affermazione della Chiesa come potere (anche) temporale, nella Galleria delle Carte Geografiche nei Palazzi Vaticani, senza dimenticare la funzione divulgativa di gran parte delle commissioni d’opere d’arte, coerente con lo spirito di evangelizzazione (e di democrazia) che ha contraddistinto il cristianesimo sin dalla sua nascita.
Dall’affermazione della potenza dell’individuo (sia nella storia del pensiero occidentale che nella sua rappresentazione artistica), la distanza tra arte e chiesa è andata via via ampliandosi, e la nostra cultura (e la sua rappresentazione) ha iniziato a concentrarsi con sempre maggiore attenzione allo spirituale piuttosto che al religioso.
In questo processo, tuttavia, il ruolo del sentimento religioso ha trovato sempre meno opportunità di manifestarsi attraverso l’arte, se non attraverso un approccio critico, sarcastico, provocatorio.
Tale rappresentazione, o assenza di rappresentazione (che per alcuni teorici ha ben più importanza della rappresentazione in sé) non è tuttavia coerente con la nostra cultura. Il numero di credenti, pur essendo diminuito nel tempo, è ancora molto elevato, e la Chiesa influenza ancora in modo sensibile il nostro sentire quotidiano, le scelte dei nostri decisori pubblici e quindi, anche il senso etico comune.
Di tutto ciò ne abbiamo oggi soltanto una percezione “in negativo”: questioni spinose come l’utilizzo delle cellule staminali, la recente legge texana che consente ai medici di “mentire ad una donna incinta”, e così via.
In pratica, si parla di valori cattolici e religiosi soltanto quando l’applicazione di questi mette in discussione i valori del nostro occidente. 
Al di là della propria posizione personale, tuttavia, ridurre il peso che l’etica cattolica ha nel nostro mondo a mera intrusione è una distorsione della realtà.
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Jan Fabre, Merciful Dream (Pietà V), 2011, marmo di carrara, 190 x 195 x 110 cm, foto Pat Verbruggen, Collezione privata, Copyright Angelos bvba

In questo la Chiesa non è esente da responsabilità: l’arte ha da sempre rappresentato un veicolo comunicativo fortissimo, in grado di divulgare un messaggio che spesso è troppo sottile ed intimo per essere espresso attraverso l’utilizzo della sola parola, soprattutto nell’era della comunicazione, in cui il nostro livello di attenzione è sempre più ridotto e in cui la sovraesposizione a messaggi morali o moralizzanti ci ha abituato a stroncare ogni forma di espressione etica in banalità da social network.
Probabilmente, la Chiesa ha piena contezza del proprio ruolo ed inizia ad avere anche consapevolezza di una necessità di cambiamento nella comunicazione dei propri valori: lo testimoniano l’adozione dello stile comunicativo dell’attuale Papa, e come sia stesso quest’ultimo ad attingere al registro della spiritualità più che del precetto anche nelle proprie encicliche.
Se questo fosse vero, allora la Chiesa non potrebbe prescindere da una valutazione del proprio ruolo all’interno della produzione artistica. Tale ruolo, se esercitato con intelligenza e senza alcun tipo di tendenza reazionaria, potrebbe fare emergere un’espressione di spiritualità e di religione che ad oggi è assente dalle gallerie e dagli altri circuiti dell’arte contemporanea.
Probabilmente, un ri-avvicinamento concreto della Chiesa all’arte, potrebbe fare emergere degli artisti che censurano (paradossalmente oggi il soggetto religioso rappresenta quasi un tabù) una propria tendenza per favorire la creazione di opere che possano essere apprezzate dal “gusto dominante”.
Elaborando una nuova forma di committenza, i fedeli (e anche i non fedeli) potrebbero beneficiare di un senso artistico “nuovo”, che non sia mera riproduzione di un’Arcadia rinascimentale, ma che sia in grado di ridare nuova luce al rapporto tra bello e divino, ma da una prospettiva umana (troppo) umana.
Stefano Monti

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