02 febbraio 2011

Gregory Crewdson a Roma, mostra da Gagosian e incontro al Maxxi

 

di

Gregory Crewdson

I nomi non
ammettono obbiezioni, da Takashi Murakami a Franz West, Richard Serra, Chris
Burden, Anselm Kiefer, Francesco Vezzoli
. Dopo il grande battage dell’inaugurazione,
sulla filiale romana di Gagosian è calato un relativo silenzio, o quantomeno
una normalissima informazione priva di attenzioni speciali.

Ma in verità
ogni mostra si trasforma in un vero evento, perché pressoché ogni volta è
accompagnata da un incontro pubblico con l’artista ospite. E ora è la volta dell’americano
Gregory Crewdson, a Roma per inaugurare la sua mostra personale dal titolo Sanctuary.
Accompagnata appunto da una conversazione presso l’Auditorium del Maxxi, introdotta
da Marco Delogu e condotta nientemeno che dal boss della critica d’arte del New
York Times
, Michael Kimmelman.
Una curiosità: fino all’8 gennaio la mostra – con foto dedicate a Cinecittà – è stata allestita a Londra alla White Cube Gallery, ora giunge a Roma chez Gagosian. Scontro al vertice galleristico globale? O semplice alleanza nella promozione di Crewdson?

Incontro: mercoledì
2 febbraio 2011 – ore 18.30

Via Guido Reni 4a
– Roma

Mostra: dal 3
febbraio al 5 marzo 2011

Via Francesco
Crispi 16 – Roma

roma@gagosian.com

www.gagosian.com

[exibart]

 

1 commento

  1. Ho visto, alla galleria Gagosian di Roma, l’esposizione “Sanctuary” di Gregory Crewdson, e non mi ha convinto per nulla, proprio in quanto estimatore del passato lavoro di Crewdson.
    Crewdson ha sfruttato il set di una serie televisiva “Rome”, di qualche anno fa, per fotografare a Cinecittà degli angoli d’ambigua atmosfera pompeiana, con incursioni in altri set abbandonati che ricostruiscono ambienti ottocenteschi (uno …in Italia, un altro a New York), anche loro ambiguamente evocatori di un’atmosfera di remota antichità.
    Talvolta fa da sfondo qualche pezzo del paesaggio suburbano solito di Roma: un fienile diroccato dietro il quale appare un casamento popolare del Tuscolano, anni ’70. Visioni per noi solite – facile malinconia – forse per qualcun altro evocative.
    Ma il gioco è facile in genere: gli scenari in abbandono propongono infiniti giochi di ambiguità delle coordinate temporali; qui rivelano la loro intrinseca modernità, là appaiono immersi in una decrepitudine originaria, antica non come Roma, ma come la memoria dell’uomo. E ancora, fanno riflettere sul paradosso dello stile, che non si riesce mai a riprodurre quando l’operazione è fine a se stessa, imitativa, e riesce invece con tutta semplicità quando la mano è guidata da un intento non artefatto, di semplice mestiere. Così, gli angoli di Roma di questi set, nella loro pur evidente falsità sono convincenti, non meno di Pompei ed Ercolano.
    Ma il merito è loro, ed è del mestiere di scenografi e artigiani di cinecittà. L’apporto di Crewdson, svogliato, banalmente calligrafico e freddo, fa solo arrabbiare per lo spreco di un’occasione. Ha tutta l’aria di un lavoro fatto senza verve, facilmente contraffatto sotto il pretesto di una poetica di oggettività minimalista. Solo, il gioco potrebbe riuscire a qualcun’altro, non a un Crewdson, che negli scorsi anni ha saputo incantarci con le ambigue evocazioni che ricavava dal puro quotidiano. A cui forse dovrebbe tornare: errore è stata questa incursione nel materiale evocativo per se stesso che ha incontrato in questi set.

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