01 luglio 2005

Tuttinfiera

 
di alfredo sigolo

E’ il trend del momento. Qualsiasi regione del pianeta, capitale, paesotto di provincia vuole ora la propria fiera d’arte contemporanea. Dalla veterana Art Basel alla giovanissima Maco a Città del Messico. Ma cosa spinge a organizzare una fiera? E quali sono i costi? Scopriamo le ragioni di un fenomeno che nasce da lontano. E che si sta sviluppando, forse, per colmare un vuoto...

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Un’occhiata al calendario, contarle tutte è impossibile: da quelle internazionali a quelle nazionali a quelle locali, dalle scafate alle scaciate, le fiere d’arte sono ormai una galassia, con soli, pianeti e satelliti regolari. Almeno una trentina quelle di rilievo, capaci cioè di offrire reali opportunità di vendita e visibilità su un piano internazionale.
I big assoluti non hanno bisogno di presentazioni: la svizzera Art Basel e la figlia Art Basel Miami, Frieze di Londra, Armory Show di New York, Arco di Madrid sono appuntamenti culturali imperdibili per operatori, appassionati e curiosi. Ma i rincalzi non scherzano: FIAC di Parigi, Art Brussel, Art Cologne, Art Forum di Berlino, Paris Photo e le nostre rassegne a Bologna, Torino e Milano.
Ci sono poi le fiere complementari, eventi dedicati all’arte giovane che si affiancano ad una kermesse principale diventandone una sorta di propaggine e di anticamera. Hanno nomi accattivanti e aggressivi che ne interpretano lo spirito dinamico e vivace, scelgono location informali, si presentano con intriganti programmi che danno ai visitatori la sensazione di un accesso privilegiato all’officina dei “saranno famosi”, tra artisti di talento e gallerie emergenti: sono Liste di Basilea, NADA di Miami, NOVA Young Art Fair di Chicago, Art.Fair Cologne, Zoo Art Fair London e molte altre.
E che dire delle “esotiche”, le fiere nelle aree non direttamente di influenza anglosassone e, proprio per questo, di grande attrattiva e importanza strategica per intercettare economie emergenti e nuovi target collezionistici? Ecco allora Art Moscow, MACO di Città del Messico, Art Athina, CIGE Beijing, Art Fair Tokio e altre, molte nate negli ultimi due anni.
A parte l’episodio isolato dell’Armory Show del 1913, la prima fiera moderna è quella di Colonia del 1967. Poi venne il 1970, quando tre mercanti, Bruckner, Hilt e Beyeler, al centro geografico d’Europa fondano la Kunstmesse di Basilea che divenne, ed è, la più importante delle fiere d’arte contemporanea al mondo, eventi che dall’originaria connotazione commerciale si sono trasformate in grandi appuntamenti culturali di massa. A dirlo sono i numeri: 30.000 visitatori per Art Basel Miami, Art Forum Berlin e la nostra Artissima, 40.000 per Armory Show, Paris Photo, Frieze London e Artefiera di Bologna; Art Basel ne fa 52.000, Art Cologne 70.000, Fiac Paris 80.000, Arco è un vero evento culturale a Madrid con addirittura 180.000 ingressi. Sono affluenze da partite di calcio; alla Biennale di Venezia occorrono quattro mesi e mezzo per smuovere 260.000 visitatori, ad Arco –restando con il parametro del biennio- bastano dieci giorni per raggranellarne 360.000. Le dieci fiere più importanti del mondo muovono insieme qualcosa come 600.000 visitatori l’anno. Con un trend decisamente rialzista.
Ma il mercato, dal canto suo, è propenso ad esplorare nuovi scenari sui quali costruire collezionismo, valvole di sfogo per realizzare denaro facile e veloce, si pensi ai fenomeni stagionali, come la japanese experience, le arti cinesi, sudafricana, latino-americana, scandinava, islandese, polacca, dell’ex jugo, canadese, scozzese, messicana. Di tanti artisti, pochi reggono alla distanza.
Così le fiere sono divenute anche strumento di promozione per un territorio, attirano investimenti e attenzione su nicchie culturali altrimenti ai margini del circuito internazionale.
Dalla fiera centralizzata alla fiera dislocata, il centro geografico, che impose la scelta di Basilea come polo di attrazione pan-europeo, tende oggi a diventare secondario rispetto alla tempestività cronologica e alla capacità di intercettazione dei flussi migratori del pubblico.
Le fiere moderne non nascono più avendo come modelli le tradizionali grandi sorelle di New York, Basilea, Parigi e Madrid, ma secondo criteri nuovi: compresse, iperselezionate, superspecializzate, l’individuazione di nuovi target e l’offerta di formule innovative diventano strategie vincenti.
L’accreditamento all’interno del circuito internazionale passa per il sostegno di sponsor, enti, grandi marchi, soprattutto forti gruppi bancari, ma il biglietto da visita di una fiera sta soprattutto nell’autorevolezza e nel prestigio della commissione selezionatrice. Che siano consultivi, organizzativi, selettivi o direttivi poco cambia, sono i comitati a decidere i prescelti tra i candidati ad esporre (riesce ad entrare il 37,5% dei richiedenti a Frieze, 150 su 400, neanche il 32% ad Art Basel, 270 su 850). Sono eterogenei, vi partecipano anche notabili, direttori di grandi musei, curatori e collezionisti, ma soprattutto galleristi. Essere promossi al rango di membro di una o più commissione è, per un operatore del settore, segno di appartenenza ad una casta superiore e assume un’importanza politica nelle strategie di mercato.
Nelle fiere maggiori i comitati disegnano esattamente la mappa geopolitica di ciascun paese coinvolto nel progetto. Per quanto attiene alla partecipazione dell’Italia, si spartiscono la torta attualmente Artiaco (Arco), Continua (FIAC), De Carlo (Armory), Kaufmann (Art Basel Miami), Minini (Ambassador per Art Basel e Art Brussel). Vacante risulta per ora il Selection Comitee di Frieze, anche se tra gli espositori ammessi si leggono gli aspiranti, tutti dell’asse Milano-Torino (Kaufmann, Giò Marconi, Minini, Noero, Sonia Rosso e la Fondazione Trussardi di Massimiliano Gioni), con l’unica eccezione della romana S.A.L.E.S. C’è da giurare che la partita sia serrata. E che lo sia anche su molti altri fronti, perché in uno scenario che vede il moltiplicarsi degli appuntamenti, un posto al sole nei comitati delle fiere emergenti è un gettone politicamente spendibile.
Un paragone calcistico? Se le gallerie ormai si dividono tra quelle di Serie A, che partecipano alle grandi fiere internazionali, e quelle di Serie B, che non se le possono permettere, stare in una commissione diventa un po’ come calcare i campi della Champions League.
Ma passiamo ad alcuni casi di studio. La galleria Continua di San Gimignano, forse il progetto più dinamico nel panorama delle gallerie italiane, negli ultimi dodici mesi ha accumulato qualcosa come undici fiere, una al mese, trovando il tempo di predisporre anche l’apertura di una filiale a Pechino, nel famoso 798 Space che già ospita Marella.
Analoga situazione, seppur con diverso calendario, per un’altra giovane galleria, quella di Andrea Perugi di Padova. Dieci fiere anche qui, ma soprattutto in programma una vera e propria tournée primaverile che porterà la galleria ad inanellare dal 26 marzo al 29 maggio, quasi senza passare dal via, nell’ordine: Flash Art Show Milano, Art Brussel, MACO Città del Messico, Art Chicago, Miart e Art Moscow. Sei fiere in sessanta, con una regola ferrea: opere sempre fresche e mai le stesse.
Siamo di fronte insomma a veri e propri tour de force che implicano impegno ed investimenti cospicui. Il business inizia dalle costosissime application, le domande di partecipazione. Per i più è l’equivalente che comprare il biglietto di una lotteria e che agli organizzatori può fruttare già diverse centinaia di migliaia di euro. Se va bene, si è in fiera.
Ma quanto costa una fiera? Mediamente per le application si va da un minimo di € 80 ad un massimo di € 550, per gli stand siamo intorno ai 150-180 euro a mq, per i trasporti si possono spendere tra i 1000 e i 5000 euro. A questo bisogna aggiungere viaggi, vitto e alloggio per galleristi, staff e qualche artista. Insomma a seconda del luogo una partecipazione di medio impatto si aggira tra i 10.000 e i 20.000 euro.
Il bilancio finanziario di una galleria d’arte, specie dalle nostre parti, è una sorta di mistero gaudioso che non consente di ragionare sui numeri. Tuttavia l’incidenza di queste trasferte è certamente in molti casi assai consistente.
Sarà pur vero che le gallerie citate rappresentano casi limite ma, proprio per il loro dinamismo e attivismo, anticipano certamente una tendenza. Di certo difficilmente saranno coinvolte in questo trend le gallerie più potenti che abbiamo visto collocate nei contesti maggiormente consolidati, sufficienti a garantirne la leadership. I nuovi mercati e i nuovi target di collezionismo sono piuttosto gli obiettivi delle gallerie emergenti.
Ma c’è chi sostiene che l’ansia di presenzialismo delle gallerie private alle fiere internazionali finirà per incidere pesantemente sulle programmazioni. Si fanno –nella canonica sede di galleria- poche mostre e concettualmente deboli, dettate più da strategie commerciali che dalla volontà di esplorare nuove ricerche. Sarà, però di contro gli stand fieristici si fanno sempre più ricercati, studiati nei dettagli e non di rado sono le stesse fiere che offrono occasioni per veri e propri progetti temporanei, rassegne, installazioni museali, concorsi per interventi monografici. E’ dunque legittimo giudicare l’attività di una galleria distinguendo tra programmazioni tradizionali e progettualità spesa negli eventi fieristici?
C’è dell’altro. Rispetto al recente boom dell’arte contemporanea, lo spirito reazionario delle case d’asta sembra inadatto a rappresentare compiutamente, ad esclusione forse solo della pittura, la ricerca contemporanea dal punto di vista commerciale. Le eccezioni di alcuni record anche recenti fanno infatti il paio con l’incapacità di stabilizzare il segmento della fotografia o di sdoganare altri media come video, arte elettronica, installazioni.
Un’ipotesi affascinante è dunque che dietro alla grande diffusione delle fiere vi sia anche la volontà di colmare un vuoto che definiremmo istituzionale.
Sezioni per l’arte monumentale, rassegne di videoarte, fiere specializzate nella fotografia e nell’arte emergente, kermesse esclusive per gallerie nate da pochi anni. L’arte contemporanea ha eletto la fiera quale istituto più idoneo a rappresentarla anche dal punto di vista commerciale, perché non ha preclusioni, consente di esplorare nuovi mercati, apre finestre su scenari emergenti, anche fuori dalla diretta influenza anglosassone. E, non ultimo, ha di fatto sostituito le tradizionali mostre periodiche (dalle Biennali di Venezia, San Paolo a Documenta Kassel, Manifesta…) nel compito di esplorare, monitorare e selezionare le nuove espressioni della creatività. In qualche modo suggerendone e determinandone le scelte. Tuttinfiera, dunque.

alfredo sigolo

[exibart]

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