04 luglio 2005

fiere_resoconti 3×1 Art Basel 36 – Liste 05 – VoltaShow 01

 
Art Basel si fa in tre. La fiera più importante al mondo sforna nuovi progetti. Genera eventi di straordinario interesse, coinvolge città d’oltre frontiera. E, dopo Liste, ora c’è anche Volta. Che non stecca la prima…

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Ed eccolo il pubblico dell’arte, affannosamente lanciato nell’ultimo chilometro prima del traguardo. Sfiancato da una stagione ricchissima di appuntamenti, caviglie gonfie per le scarpinate su e giù per le calli veneziane ad inseguire questo o l’altro evento biennalesco, lingua incartapecorita dalle troppe chiacchiere spese nei vernissage imperdibili. E poi dicono che i calciatori giocano troppo. Ai presenzialisti dell’arte l’antidoping chi lo fa? L’ultimo briciolo d’energia si spende dunque a Basilea. La forza d’inerzia fa miracoli perché pinne, fucile ed occhiali sono nel bagagliaio.
Basilea, un evento che non può tradire mai. Troppi investimenti, troppi interessi, una città che negli ultimi vent’anni si è data una conformazione urbanistica fatta apposta per valorizzare la fruizione dell’arte contemporanea, punteggiandosi di musei, istituzioni, pubbliche e private, splendidi contenitori progettati da grandi architetti contemporanei, come lo Schaulager, museo di Herzog & de Meuron inaugurato nel 2003, che ospita una retrospettiva di Jeff Wall da togliere il fiato. Art Basel può essere se stessa o superarsi, niente più.
Eppure quest’anno non è stata una grande fiera. Poco propositiva, persino le sezioni Statement e Unlimited hanno nel complesso deluso. E’ come se, dopo tanto clamore intorno all’arte contemporanea, dopo tanti soldi spesi, i prezzi in continuo rialzo, una moda che ha acquistato i connotati di un fenomeno mondiale, si sentisse la necessità di una pausa di riflessione. Rientrare nei ranghi per rinforzare quella corda troppo tesa che potrebbe spezzarsi. E non sarebbe la prima volta.
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Perché ciò che è successo negli anni recenti e nei mesi scorsi è semplice: si sono storicizzati gli anni ’90. Cattelan, Currin, Hirst, Peyton, Prince, Gursky & c.: sono loro, nei diversi media, ad incarnare lo spirito di quel ventennio che ha chiuso il XX secolo. E ora, che facciamo? Posto che qualche altro potrebbe andarli a raggiungere nell’olimpo del mercato (in fondo quella della Peyton è storia di un mese fa), posto che ormai è chiaro a tutti che è il mercato a creare valori culturali e la nostra memoria senza tempo, che ci resta? Scovare nuovi talenti colonizzando territori inesplorati, promuovere ricapitolazioni del nostro passato prossimo per raschiare il barile, tenere alta la tensione cavalcando il grande spettacolo dell’arte. In attesa che crescano i primi maestri del secolo XXI. Ma che facciano in fretta…
Se Art Basel s’arrocca, Liste 05 sposta il segno un po’ più in là. La fiera delle nuove gallerie emergenti si regala una buona edizione per festeggiare (come passa il tempo…) il suo 10° compleanno. Non mancano le proposte interessanti, segno di una vivacità mai paga e di una formula che funziona, garantendo un ricambio continuo. E per fortuna il contributo italiano si mantiene di qualità, specie quest’anno. Ma non sta tranquilla Liste, perché vista l’incredibile quantità di candidature provenienti da ogni parte del globo per entrare nell’una o nell’altra fiera, tre galleristi (Friedrich Loock di Berlino, Ulrich Voges di Francoforte e Kavi Gupta di Chicago) hanno pensato bene di crearne una terza di fiera. In pochi mesi è nata così VoltaShow 01, che vuole imporsi come vera alternativa alla Liste, diventata anticamera di Art Basel.

Le differenze sono evidenti: Liste è molto europea nella concezione, a Volta si respira un clima decisamente filoamericano, meno concettuale e più pop. Le carte vincenti? La cerchia ristretta a poco più di una ventina di gallerie e la location, i 6000 mq della Voltahalle, una piccola struttura fieristica ariosa e funzionale, che può contare su una buona illuminazione naturale attraverso la finestratura esposta al sole, una gioia rispetto agli angusti e claustrofobici spazi della fabbrica di Liste. Ci sarà un’edizione 2006? Non è dato sapere. Certo è che quelli finora banditi dal club Basileiano cominciano a sperare. E si mettono già in fila.
Di seguito un veloce resoconto dal crocevia elvetico.

Art Basel 37

Arte d.o.p. (a denominazione di origine protetta). Non avranno mai il Castelmagno piemontese o il Fiano d’Avellino ma per l’arte contemporanea gli USA sono una garanzia. L’esempio è Hiroshi Sugimoto: adottato da New York, trattato da colossi di gallerie di mezzo mondo, da Gagosian a Templon, da Serpentine a Ziegler, a White Cube, è uno dei pochi artisti fotografi solidamente ancorato alle aste internazionali. Le recenti Form (Mechanical e Mathematical) del 2004, presentate da Ileana Sonnabend, sono sculture e memoria della modernità. E che dire dei Crying men di Sam Taylor Wood da White Cube? Secondo la logica per la quale anche i ricchi piangono, sono ritratte otto star del cinema. Nel novero potremmo anche mettere l’argentino Kuitca di Sperone, regolare nelle aste, una garanzia.

Tra classici e modaioli
. Li uniscono prezzi, che spesso sono più o meno analoghi per un maestro consolidato del ‘900 ed una recente star del nostro tempo. Così Marlene Dumas, Robert Gober, Richard Prince, Elizabeth Peyton, Bruce Nauman, Andreas Gurski, Gerhard Richter valgono spesso illustri predecessori. Che sono sempre lo zoccolo duro di Basilea, dove passano opere realmente museali, perché allo shopping di musei e grandi collezioni pubbliche e private sono destinate. Ecco dunque i Bacon, gli Schnabel, gli Warhol, i Basquiat, i Picasso e i Panamarenko, ecc.

Turnover: a volte ritornano. La logica è di difficile decifrazione, tuttavia è sempre interessante scoprire come alcuni artisti tenuti a lungo in panchina d’improvviso tornino alla ribalta. E’ il caso di John Chamberlain ad esempio: le sue splendide lamiere accartocciate (qualcuno le ricorderà nella collezione del DIA:Bacon, nella valle dell’Hudson alle spalle di New York) sono ricomparse qua e là in modo massiccio, da Hufkens, da Meier, in tutto una dozzina di gallerie. Per non dire degli splendidi lavori di un altro maestro Pop, Edward Kienholz, che da Lelong è ricordato con installazioni di alta qualità (splendida la Bruenhilde del ’76).

E i nuovi crescono. Soprattutto Carroll Dunham da Gladstone, che conserva una certa originalità rispetto alle tendenze omologanti recenti e Paul Morrison, da Cheim & Read, ogni volta sempre meno pop e sempre più medievale. C’è anche un Hernan Bas, da Victoria Miro, che sembra a tratti sfiorare Schiele. Da investimento i lavori di Michel Majerus (da Petzel), morto prematuramente. Provengono poi dalla Germania segnali di una possibile nuova astrazione, con Thomas Scheibitz da un lato (da Spruth/Magerts) e Frank Nitsche dall’altro (da Lehmann). In vena il quasi italiano Elger Esser, qui con lavori fotografici recenti dalle suggestioni pittoriche (Ropac e Sonnabend), il fotografo Charlie White e il canadese David Altmejd, entrambi da Andrea Rosen, il secondo presente con belle geometrie di catenine dorate, chiuse nel plexiglas trasparente. E se Contemporary Fine Arts attende la definitiva esplosione di Jonathan Meese, lo stesso fa Modern Art per Barnaby Furnas, che ritrae in pittura niente di meno che un concerto dei Motley Crue. Nel gruppo aggiungiamo il sempre lucido Jimmie Durham, per la bella sedia sfondata di Konig.

Cover. Mentre Aleksandra Mir, da Prats, si dà alle carte giganti citando Murakami, Jan Worst, da Sperone, rende in pittura quello che Daniela Rossel fa in fotografia. Ma piacciono soprattutto, da Muller e Hengesbach, le Cover vere di Axel Lieber, riproduzioni in scala di famose sculture (es. Tony Smith), realizzate con pezzette di pannolenci colorato.

I pezzi grossi. La logica della spettacolarizzazione ad ogni costo coinvolge anche gli stand. Un quadro di 5 metri di Federle (The Jeremiah Case eight) da Nachst St. Stephan, una giara apocalittica di Haring di oltre 2 metri e mezzo da Gonzales, una parete coloratissima di Oehlen (da Mayer), che però nei lavori recenti diventa di un grigio intimo, quasi monocromo. E non scherza neppure Bischofberger con il Cucchi di 4 metri.

Vorrei ma non posso. I souvenir d’autore, destinati ad un collezionismo comunque d’élite, ci sono anche qua. Per Erwin Wurm, da Krinzinger e Art & Public, quella dei multipli grassocci è un’attività redditizia. E delocalizzazione e concorrenza cinese sembrano per ora non preoccuparlo. E per chi non può permettersi i Murakami o i Nara ecco i multipli di Miyake, comunque assai bellini (da Koyama) o, dello stesso, la truppa dei figli del cassonetto… i cassonettini insomma (assai divertente, c/o Gerhardsen).

Video è bello. Incredibile ma vero, quest’anno anche la videoarte fa la sua comparsa nella reazionaria Basilea. Se ne sono visti un buon numero. Che il video non sia a suo agio nelle batterie di cartongesso e non si concili affatto con i serrati tempi di fruizione delle fiere è risaputo. Qualcuno stavolta ha azzardato persino la videoinstallazione. Un segno, forse, che qualche cosa sta cambiando. Ecco dunque la riflessione sui giardini di Hans Op de Beeck da Hufkens, opere di Jurgen Klauke da Mayer, del turco Haluk Akakçe e di Won Ju Lim da Hetzler, e 4 schermi 4 per i video da Noire, con un esemplare Bill Viola e la maliziosa Mary Sue.

Da Venezia col furgone
. Immancabili. Uno li vede alla Biennale, come in vetrina, e poi, se ha i dané, può comprarseli qui. I lavori sono gli stessi, al massimo della stessa serie e periodo. Ad esempio tutti ricordano il calco della scala di Rachel Whiteread, no? Beh, da Luhring Augustine ecco quello della porta d’accesso alla suddetta. Analogo discorso riguarda Ruff, Messager, Kentridge, Guston, Bonvicini e Orozco, che però qui è presente anche con due palloni da calcio, più belli delle cose veneziane. C’è pure, da Maubrie, la famosa View (La finestra sul cortile) di Leandro Erlich e, da De Alvear, persino l’installazione sonora dell’ingresso alle Corderie di Santiago Sierra.
Per la cronaca Marian Goodman, manco a dirlo, infila una cinquina, Orozco, Messager, Kentridge, Schutte e Ahtila. Fossimo stati al posto di De Corral e Martinez, altro che ringraziamenti in catalogo, le avremmo chiesto una quota di sponsorizzazione.

Stecca doc. E’ quella di Matthew Barney, per le foto di scena dal nuovo film Drawing restraint 9. Gli scatti visti da Gladstone sembrano pallide declinazioni fotografiche di Kill Bill. Vedremo il film…

Flash italiani. Compare David Casini da Paley, allestimento importante di Emi Fontana con Kelley, Durant, Tiravanija, Dion, Moro e Bonvicini, mentre si tengono sul classico Studio la Città, con i Pari e Dispari di Boetti del ’78, e Artiaco, con un wall painting di Lewitt e il granito di Anselmo. Continua non appare al top, nonostante il Chen Zen, mentre De Carlo si fa notare soprattutto per la sedia a rotelle con palloncino di Elmgreen & Dragset.

Statements: se Atene piange… Una gran delusione. Delle 17 personali dei giovani non ve n’è una che lasci veramente il segno. Una selezione cervellotica priva di freschezza estetica e concettuale. I premi sono andati a Jim Drain (Greene Naftali, USA) e a Ryan Gander (Gelink, NL). Tutto sommato meritati, anche se ci stava pure per Ian Kiaer (Jacques, GB).

Unlimited: …Sparta non ride. Bellino, carino, divertentino. Ma niente di più, le classiche opere che tolgono il fiato non ci sono.
Buono l’ascensore di Artschwager che catapulta in pieno anni ’80, l’ondata che travolge i personaggi di Bill Viola e il classico pianoforte posseduto di Martin Creed. Le novità? Pylypchuk, con la sua colonia di mostriciattoli, quella Sharyar Nashat che non è parente della quasi omonima Shirin ma è brava lo stesso (vedi il lavoro del padiglione elvetico in Biennale).
Rischiamo il migliore e il peggiore. Palma d’oro al video Looking for Alfred di Johan Grimonprez, ben fatta rivisitazione dell’immaginario Hitchcockiano, cucchiaio di legno al labirinto di Alan Charlton, di una scontatezza disarmante. Ma alla fine i lavori decenti si contano sulle dita di una mano.

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Dark Metal. Molti l’hanno notato, in questa edizione. Quel gusto decadente e gotico, un po’ dark e un po’ metallaro, sembra tanto di moda. Non a caso ad aprire la fiera stanno quelli di The Breeder, che del nero hanno fatto una bandiera, con gente come Jannis Varelas e Marc Bijl. Ma stavolta sono in buona compagnia, con Peres Project che presenta il newyorkese Terence Koh, la norvegese Standard con Matias Faldbakken, l’olandese Stigter con le guache di Iris van Dongen. E nel gruppo non stanno male neppure le atre ceramiche su quarzo di David Casini (T293).

Dis(imp)egno.. Secondo i dettami della moda, nelle ultime edizioni di Liste il disegno l’ha fatta da padrone. Tecniche e supporti leggeri, effimeri, poveri, ed un’istintività infantile e minimale. Almeno fino ad oggi. Perché ormai di figurine, pupazzetti e mostriciattoli ne abbiamo avute a iosa. E così il disegno sembra rientrare, tornando ad investigare un immaginario più classico e colto. Quest’anno c’è Peter Peri (da Counter) che, sullo stile fluttuante di Dan Brown, realizza centrotavola con fiori e ostensori in grafite su carta, mentre, da Herald St., Pablo Bronstein copia l’architettura del Bibbiena. Cary Kwok inventa una grottesca fallica che potrebbe stare a Pompei e la danese Julie Nord scrive Demon con capilettera zoomorfi da amanuense.

Incroci al femminile. Sono divertenti le animazioni in plastilina di Nathalie Djurberg da Mogasdishni, un’artista già entrata nell’orbita di Giò Marconi, mentre la dieta in fiera fatta da L.A. Raven per Edbproject sarebbe funzionata bene con le girls della Rosa Martinez.

Italiane sugli scudi. Molto bene gli italiani di Liste, che tengono alto il livello di guardia. Bene 404 con i vasi di Eduardo Sarabia, bene Zero per la zanzariera di Tue Greenfort e Maze con Golia e Sigurdardòttir. T293 si presenta con la bella impronta di pneumatico di Pennacchio Argentato e la bandiera di Nemanja Cvijanovic reduce dal Mars Pavillion lagunare. E non stecca neppure la nuova Fonti, ancor più che per Scotto di Luzio, per la serie fotografica di Nicola Gobbetto, con un canarino che divora progressivamente un suo alter ego in zucchero.

VoltaShow 01

Ironia. Ne profonde a piene mani Yoshua Okon, della mexicana Guerrero, con la sua grossolana declinazione turca di Tarzan. Ma è bello tutto lo stand della galleria.

Raffinatezza spagnola. Tra Matthew Barney e i 7 peccati capitali del Magnum gelato, il nuovo video Rouge di Erwin Olaf è comunque una prova di abilità di seduzione. All’Espacio Minimo.

Beautiful losers. Qualcuno ha definito così gli esponenti principali che incarnano il nuovo gusto underground nella pittura americana. Di quei losers c’è qui uno dei capi indiscussi, Chris Johanson, tra dipinti all’interno e palloni svolazzanti all’esterno. Ma affiliati, parenti ed epigoni sono già pronti, come Jules de Balincourt (da Zac Lever) o Derraindrop da Kevi Gupta.

Il top. Le cose migliori da Spencer Brownstone, con l’esplorazione in diretta di un modello geometrico ligneo per Ian Burns e da Bellwether, con un ottimo wall painting di Adam Cvijanovic che, in linea con la destinazione dei suoi lavori, diventa set anche per i manichini di Allison Smith, soldati della guerra civile americana.

alfredo sigolo

[exibart]

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