13 settembre 2012

“Vennestraat, Hidden Places and Identities”, un progetto tra artisti ed ex minatori

 
Due giovani curatrici sono riuscite a far passare un loro progetto a Manifesta9. Con pochissimi soldi, ma molta energia e passione. Una di loro, Francesca Berardi, ci racconta come è nata e come si è realizzata questa scommessa, che fino al 29 settembre è di scena a Genk. Un esempio di come si possono concretizzare progetti se ci si crede sul serio

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Mentre seguivamo la performance di Ettore Favini sulle pendici del terril, una montagna di detriti alle spalle della miniera, sapevamo di avercela fatta. Il signor Costa ci aveva prestato tutti i televisori, il circolo sardo ospitava gli artisti, e i lavori erano tutti installati. Il risultato del nostro progetto per Manifesta9, per il quale abbiamo invitato un gruppo internazionale di artisti ad esporre in un ex quartiere minerario belga, è stato il premio che speravamo. Con un budget totale di 7500 euro, e la collaborazione, molto più preziosa, della gente del posto e degli artisti, il primo settembre abbiamo visto materializzarsi i lavori di AuroraMeccanica, Fatma Bucak, Ettore Favini, Meryll Hardt, Marguerite Kahrl, Carole Louis, Vittorio Mortarotti, Geraldine Py e Roberto Verde, Karim Rafi, Younes Rahmoun e ZimmerFrei.

L’idea ci è venuta su una pietra in mezzo a un fiume nel cuneese, la scorsa estate. Michela Sacchetto ed io parlavamo di quanto ci sarebbe piaciuto invitare degli artisti a lavorare intorno a un mercato tradizionale, in un luogo dove insieme alle merci si scambiano tradizioni e contatti tra persone. Michela viveva già a Bruxelles, io ero reduce da un periodo di lavoro ad Anversa, e guardando al Belgio ci è venuto in mente il mercato di Vennestraat, la strada principale di un ex quartiere minerario di Genk, una cittadina nel cuore del limburgo Belga, dove vivono migliaia di immigrati italiani, turchi e marocchini. Genk, abbiamo realizzato in quel momento, avrebbe tra l’altro ospitato la nona edizione della biennale Manifesta.

L’atmosfera di Vennestraat ci aveva incuriosite. È la strada che porta alla minera di Winterslag, conosciuta come C-Mine, che dal 2010 ospita uno dei centri culturali più grandi e attivi del Limburgo. Da quando, nei primi anni Novanta, sono state chiuse tutte le miniere della regione, alcune sono state rinnovate e riconvertite in musei, centri commerciali o culturali. Continuano così ad essere il centro della vita dei quartieri circostanti, aree operaie, costruite secondo il modello delle città giardino, abitate da ex minatori e loro discendenti. Lungo Vennestraat, vicino alle “frituur” (friggitorie) belghe, si trovano i “bar sport” dell’Italia degli anni Sessanta, le atmosfere, vietate alle donne, dei vecchi caffè turchi, e i sapori del Marocco.

Michela ed io abbiamo scritto il progetto, e pensato ai primi artisti che avremmo voluto invitare. A dicembre ho poi incontrato Cuauhtemoc Medina, il curatore di Manifesta. Gli ho parlato dell’idea e l’ha incoraggiata. La biennale si sarebbe svolta interamente dentro le mura di una miniera abbandonata, la miniera di Waterschei, e gli piaceva che il progetto entrasse anche nella dimensione sociale, di vita quotidiana, della città. Mi ha spiegato che avremmo dovuto mandare una proposta alla commissione per i “parallel events”, e che la clausula era di stabilire una partership con un ente locale. Abbiamo così trovato una galleria di fotografia e design di Vennestraat, Galleriet, interessata a collaborare con noi.

Al momento di presentare la domanda, l’idea si era già estesa oltre ai confini del mercato. Volevamo tracciare una mappa di luoghi comuni, nascosti e inaspettati, lungo Vennestraat dove allestire i lavori degli artisti, coinvolgendo attivamente gli abitanti del quartiere: siamo entrate nell’affollata panetteria turca, abbiamo bussato alle porte di un cinema dismesso dell’epoca mineraria e ci siamo sedute al bancone del circolo sardo. Avevamo steso una lista di artisti che avessero già lavorato sul tema dell’identità di un luogo, sia dal punto di vista umano che territoriale, che avessero indagato l’idea di appartenenza, di “casa” e di spostamento, che avessero approfondito il ruolo giocato dalla memoria, sia personale che collettiva. Ma soprattutto di artisti che ci piacevano molto. Gran parte di loro sono originari, non a caso, degli stessi Paesi delle grandi comunità che popolano Genk: Belgio, Italia, Turchia e Marocco. Non intendevamo creare un’equazione scontata, ma ci sembrava che potesse essere stimolante, sia per gli artisti che per i locali, confrontarsi con persone con cui si condivideva l’origine ma non il destino.

Di soldi per i progetti paralleli, dalle casse di Manifesta, non ce n’erano. Nell’arco di pochi mesi (la risposta alla nostra domanda è arrivata a fine febbraio) abbiamo dovuto fare fundraising, trovare sponsor, studiare con gli artisti progetti low budget, capire come ospitarli a Genk, e trovare le location adatte. I fondi sono arrivati dalla città di Genk, dal Kostfach di Stoccolma (dove Michela sta facendo una residenza per curatori) e da alcuni sponsor, come la galleria Alberto Peola di Torino, che ha sostenuto la partecipazione di Fatma Bucak, e il GAI, che ha coperto le spese di AuroraMeccanica.

Quando Michela ed io ci trovavamo a Genk dormivamo ospiti da Don Claudio, un prete operaio che ha studiato a Torino con Gianni Vattimo. Le associazioni locali si sono rese subito disponibili ad aiutarci a livello pratico e gli abitanti e commercianti di Vennestraat hanno accolto con entusiasmo il progetto. I materiali per le opere ci sono stati in gran parte prestati. Il signor Costa, padrone del cinema dismesso di Winterslag, è stato fondamentale per le video installazioni. È di origini cretesi (dice sempre, ridendo, di essere un “cretino”), e possiede centinaia di vecchi televisori, che ripara per combattere il vizio contemporaneo di comprare cose nuove invece che aggiustarle. Gli artisti, arrivati a Genk nei giorni precedenti all’inaugurazione della mostra, hanno lavorato con quello che c’era a disposizione, con flessibilità, sensibilità e un creativo spirito di adattamento. Per la realizzazione materiale dei lavori siamo stati aiutati da alcuni amici arrivati per l’occasione dall’Italia, come Stefano Riba, un giovane gallerista di Torino. La collaborazione che si è creata tra tutti è stata molto costruttiva, e i lavori, sia gli interventi temporanei sul mercato che le installazioni nelle sedi di Vennestraat hanno coinvolto la gente del luogo e lasciato un segno. In questo scambio, nell’incontro tra il lavoro di un gruppo di artisti internazionali e il tessuto sociale di una sperduta cittadina ex mineraria, si trova il cuore del nostro progetto. Gli ex operai e le loro famiglie, sospesi in un limbo post industriale, devono affrontare la trasformazione, economica e sociale, della regione in cui vivono. E l’arte, in questo caso, ha assunto la responsabilità del suo ruolo nella società.

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