11 settembre 2008

DUBAI, ART TO BUY

 
di cristiana de marchi

Un fiorire di gallerie d’arte introduce nella capitale del Golfo nuove prospettive di investimento. Ma anche la possibilità di aderire alla contemporaneità. Uscendo dalle solite logiche commerciali...

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Dubai viene spesso additata come città di primati e mai cliché sembra essere stato più appropriato. Riflettiamo per un momento sulle date e ci renderemo conto immediatamente della “giovinezza” della città e, di conseguenza, del suo imporsi sulla scena mondiale. Gli Emirati Arabi Uniti nascono nel ‘71 e hanno come capitale Abu Dhabi, non Dubai, e anche questo non è un dato irrilevante. Prima della scoperta del petrolio questa regione è rimasta ai margini, incarnando l’ideale di tanti romantici esploratori di terra desertica e aspra. Considerando la breve vita dello Stato, valutazioni inclementi circa il suo ritardo artistico sembrano dunque davvero ingiustificate, se si considerano la quantità e, in alcuni casi, la qualità delle iniziative relative all’arte contemporanea.
Vediamole in carrellata. Innanzitutto ArtDubai, la fiera d’arte contemporanea giunta alla sua seconda edizione e già impostasi su scala internazionale. Certo la disponibilità di risorse facilita la realizzazione di imprese di ampio respiro, ma senza un’organizzazione esperta e una proposta intrigante nessun fenomeno potrebbe reggere alla prova dei fatti. E la realtà mostra un numero crescente di gallerie di consolidata posizione che propongono la propria candidatura per la prossima edizione e di curatori che occhieggiano all’attraente Abraaj Capital Art Prize, recentemente istituito. Obiettivo degli organizzatori è quello di incoraggiare la collaborazione fra curatori internazionali e artisti provenienti da Medio Oriente, Nord Africa e Sud-Est Asiatico (MENASA). I progetti vincitori saranno esposti nel corso della prossima edizione di ArtDubai (17-21 marzo 2009) e le opere realizzate per l’occasione saranno acquisite, andando così a costituire il primo nucleo di una collezione permanente dedicata agli artisti Menasa, seguendo l’acronimo di matrice inglese.
The Third Line Gallery - veduta dell’esterno della galleria
Effettivamente fino a oggi ben pochi specialisti del mondo dell’arte contemporanea occidentale sembrano essersi accorti di quanto accade in Medio Oriente. A eccezione di pochi nomi -sempre gli stessi, per la verità- e di qualche incursione alla ricerca di talenti da vendere sulle piazze di New York, Londra o Parigi, ben poca è l’attenzione finora riservata a questa regione, che sembra viaggiare su binari paralleli rispetto alla più esposta scena occidentale. E il pur ricco panorama del Sud-Est Asiatico non sembra godere di maggior fortuna. Gli artisti mediorientali, anche se bravi, vengono quasi esclusivamente considerati in relazione a conflitti e distruzioni e proposti in contesti prefissati, corollario a dimostrazione di un teorema, come nel caso dell’ultima mostra organizzata a Parigi al Centre Pompidou, Les inquiets, che assemblava i lavori di cinque artisti accomunati dal fatto di essere “sotto la pressione della guerra”. Del resto, quasi solo a Parigi e a Londra si ha l’occasione di vedere qualche buon artista Menasa, per una sorta di “effetto di ritorno” da retaggio coloniale.
Intanto Christie’s e Bonham’s, intuendo le potenzialità di Dubai, hanno deciso di avviare qui un programma d’aste che sembra dei più promettenti, puntando su artisti iraniani, indiani e arabi, ma anche su gioielli e orologi da collezione, raggiungendo quote di vendita assolutamente superiori rispetto alle più felici proiezioni della vigilia (Christie’s da sola ha totalizzato 63 milioni di dollari in soli diciotto mesi, contro i trenta previsti per il primo triennio di attività).
B21 Gallery - veduta dell’interno della galleria
Ma passiamo dalle aste alle gallerie. L’ultima in ordine di arrivo è la filiale locale di Ayyam Gallery, una delle più note di Damasco, che espone esclusivamente artisti siriani. Anche Ayyam ha deciso di stabilirsi nella zona industriale di Al Quoz, interessata da un fenomeno di rapida riconversione urbanistica. “Le gallerie hanno una grande responsabilità, dovendo rivestire non solo un ruolo commerciale, ma anche dovendo incoraggiare lo sviluppo culturale della città”, sottolinea Hisham Samawi, partner locale di Ayyam.
È quello che fa da alcuni anni The Third Line, in assoluto una delle gallerie più interessanti della città, insieme a B21 ed Elementa. Mentre B21, aperta nell’autunno del 2005, espone esclusivamente artisti mediorientali e iraniani, prediligendo nomi innovativi ed emergenti, e con un occhio dichiaratamente rivolto ai collezionisti, The Third Line amplia i propri orizzonti, includendo artisti che lavorano in loco, pur essendo originari di altri contesti geografici. Luogo di incontro, sede di iniziative propriamente culturali che coinvolgono vari ambiti di espressione artistica, The Third Line oltrepassa i limiti dello spazio generalmente concesso alla galleria per tentare di creare una piattaforma che introduca l’arte contemporanea a un più profondo livello nella società di Dubai, stabilendo così un dialogo con il pubblico. Un progetto ambizioso, degno di una fondazione o di un museo.
ArtDubai 2008: Hrair Sarkissian - Untitled - 2007 - stampa lamda - cm 150x100 - ed. di 3 - courtesy Kalfayan Galleries, Athens-Thessaloniki
Anche Elementa Gallery si inserisce in questa traiettoria: aperta all’inizio di quest’anno nell’area franca dell’aeroporto, ha deciso di privilegiare la prossimità fisica all’Emirato di Sharjah -sede di una più che rispettabile biennale di arte contemporanea, il prossimo anno (16 marzo-16 maggio) alla nona edizione, e vero parametro di riferimento per il brulicante sviluppo di iniziative culturali che Dubai e Abu Dhabi stanno conducendo- per sottolineare l’aderenza a una matrice di pensiero. Elementa ha già messo a segno due mostre di grande respiro, veri padiglioni degni d’una biennale, in cui l’obiettivo strettamente commerciale sembra quasi negletto. Orientata verso il Sud-Est Asiatico, espone indiani, pakistani, uzbeki, alcuni dei quali già visti in Italia alla Fondazione Sandretto e quasi tutti noti a livello internazionale.
Unico spazio è finora consacrato alla custodia e alla promozione degli artisti contemporanei originari degli Emirati, The Flying House richiama nel nome il tappeto volante tante volte citato parlando d’Oriente. Anch’essa inaugurata all’inizio di quest’anno, in realtà operante da oltre un ventennio, questa “casa” che di fatto è una fondazione per l’arte contemporanea rappresenta gli artisti dell’avanguardia e alcuni dei loro allievi. “A livello internazionale esiste un preconcetto rispetto alla mancanza di artisti contemporanei negli Emirati. Il mio obiettivo è quello di dare loro un’esposizione internazionale ma anche di valorizzarli a livello locale”, afferma con grande vigore Abdul-Raheem Sharif, fondatore. Ciò che più colpisce lo spettatore occidentale è indubbiamente scoprire che anche a Dubai ci sono state l’arte povera, la land art e l’arte concettuale, nonostante nomi come Hassan Sharif, Hussain Sharif, Mohammed Kazem, Mohammed Ahmed Ibrahim non evochino certo immagini nitide.
Uno scatto veneziano di Abelardo Morell da Bonni Benrubi Gallery ad ArtDubai 2008
Chissà se The Flying House atterrerà nel nuovo progetto lanciato dal governatore di Dubai, il Dubai Creek Cultural Project, che dovrebbe trasformare la città in un vero e proprio polo culturale su scala internazionale. Il progetto includerà dieci musei tematici, nove biblioteche, quattordici teatri, sette istituti per la promozione delle arti e undici gallerie, oltre a una serie di atelier per artisti locali e stranieri. Il tutto dovrebbe essere pronto entro il 2015, in linea con il piano strategico pensato per lo sviluppo di Dubai: l’obiettivo dichiarato in occasione dell’inaugurazione è quello di “creare un nuovo modello per il futuro della cultura e delle arti nel mondo, fondendo la forte eredità di Dubai con la cultura vasta e diversificata dei molti residenti stranieri”.
Una prospettiva encomiabile, anche guardata in parallelo ai grandi progetti artistici di Abu Dhabi, specialmente la Saadiyat Island (“l’isola della felicità”) che proporrà al suo interno, tra gli altri, il Guggenheim di Frank Gehry, il Louvre di Jean Nouvel, il Performing Arts Center di Zaha Hadid e il Maritime Museum di Tadao Ando. Se quindi Abu Dhabi mira a inserirsi nel circuito del turismo culturale su scala planetaria, Dubai potrebbe aderire a una visione più calibrata e responsabile. Avendo già conquistato l’attenzione dei media grazie a una chiara visione del ruolo che intende rivestire nel prossimo futuro e a una oculatissima operazione di marketing, la città è riuscita a scrollarsi di dosso l’immagine generalmente appiccicosa di paese produttore di “crudo” (petrolio) e socialmente non molto più “raffinato”, intraprendendo ora una nuova tappa che potrebbe imporla sulla scena internazionale come modello di rispettoso confronto culturale. Magari più rilassato delle ruggenti vicine.

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link correlati
www.artdubai.ae
www.ayyamgallery.com
www.b21gallery.com
www.thethirdline.com
www.galleryelementa.com
www.the-flyinghouse.com
www.sharjahbiennial.org

cristiana de marchi




*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 51. Te l’eri perso? Abbonati!

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