19 febbraio 2009

I MUSEI DELLA CRISI

 
di alfredo sigolo

Nell’economia dell’arte i musei hanno da sempre giocato un ruolo di mediazione determinante. In tempi recenti si sono moltiplicati come funghi. Ma la recessione mondiale non guarda in faccia nessuno. Una riflessione...

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L’anno appena iniziato porta con sé dubbi e incertezze nel mercato dell’arte. Colpa della grave crisi economica globale che sembrava aver risparmiato il settore ma che si è inesorabilmente abbattuta, seppur a scoppio ritardato, nell’ultimo semestre del 2008.
Le previsioni sono pessime, ci si attende un periodo buio, lungo e travagliato. Come affrontarlo? In questi anni di boom si è assistito a cambiamenti epocali e lo scenario oggi è profondamente diverso rispetto a uno o due decenni orsono. Il sistema internazionale si è popolato di nuove gallerie emergenti oggi a rischio, il calendario si è infittito di appuntamenti fieristici, le biennali si sono moltiplicate in ogni angolo del globo, il collezionismo ha scoperto nuovi protagonisti e nuove rotte geografiche. I primi ad accusare il contraccolpo della crisi sono stati i musei, pubblici e privati. Per loro il regno dell’effimero e della moda del contemporaneo era già un problema, da affrontare con nuove strategie difficilmente conciliabili con la mission storica di questo genere di istituzioni deputate a tutelare e valorizzare la memoria storica e l’identità culturale.
Nell’editoriale dello scorso numero di “Exibart.onpaper”, il direttore ha invocato una scossa nelle politiche museali italiane. È giusto. Ma è giusto anche riflettere sul significato del museo nel nostro tempo e sul suo ruolo super partes nel contesto dell’economia dell’arte. Basterebbe leggere il recente contributo di Jean Clair, La crisi dei musei, per comprendere le pericolose derive che si stanno prendendo. Clair prende le mosse dal progetto del Louvre bilocato ad Abu Dhabi per porre dei dubbi sul senso di costruire nuovi musei che rischiano di rimanere gusci vuoti o, al massimo, riempiti con eventi di scarso valore scientifico da dare in pasto alla cultura di massa. Di più. Clair mette in guardia rispetto al rischio di una perdita d’identità del patrimonio, brutalizzato e svuotato di senso all’insegna di falsi principi di internazionalizzazione che altro non sono che il braccio armato della globalizzazione e nascondono una progressiva deriva verso le ragioni del marketing e all’ingerenza della ragione economica.
Jean Clair
La vera emergenza consiste nel riscattare il ruolo pubblico. Su questo fronte stiamo assistendo un po’ ovunque a un processo di ribaltamento paradossale. L’economia in ginocchio ha prodotto un malcontento diffuso che ha trovato la sua valvola di sfogo nei governi nazionali. In campo culturale polemiche hanno coinvolto le gallerie e collezioni pubbliche un po’ ovunque. In Italia i casi di Palazzo Forti, delle Papesse, di Trento, Bolzano, Caraglio e Villa Manin mostrano che i nervi colpevolmente scoperti nelle politiche della cultura ci sono eccome. Ma la cura è talvolta peggio del male. Jean Clair analizza con inquietudine le strategie espansionistiche del Louvre e critica il modello diffuso del Guggenheim, scagliandosi contro la mercificazione del bene pubblico, constatando l’annullamento della mission educativa a favore del mero entertainment, la dissoluzione del museo nel brand.
In Inghilterra il direttore della Tate Nicholas Serota è sempre nell’occhio del ciclone ma neppure la National Gallery è stata risparmiata. In Germania si è passati dalla preoccupazione per il rarefarsi delle sponsorizzazioni ai musei pubblici, a vantaggio della diffusione di nuove strutture private, a una vera e propria guerra interna fra le istituzioni per spartirsi i pochi partner rimasti (lo sostiene Max Hollein, direttore del museo Staedel di Francoforte, in un’intervista per Bloomberg). I musei statunitensi, legati a doppio filo con il mondo economico, stanno passando quasi ovunque momenti durissimi. I piccoli rischiano la scomparsa, i grandi, come il MoMA, tagliano i bilanci. La nuova Tate Modern di Herzog & de MeuronE poi c’è il caso del Moca di Los Angeles, sull’orlo del baratro: nell’ormai famosa lettera al “LA Times”, il collezionista Eli Broad si è autocandidato al salvataggio. Peccato che Eli Broad sia in fondo uno dei principali responsabili, in tempi non sospetti, del decadimento progressivo del museo. In passato le ha tentate tutte per minare l’indipendenza dell’istituzione e influenzarne le politiche. Incassato il rifiuto, non ha fatto che spostare le sue attenzione sul Lacma, installandovi permanentemente la sua collezione (Bacma) e portandosi dietro una bella fetta di investitori. Il Lacma è divenuto una punta di eccellenza, sottraendo però linfa vitale al Moca che, per difendere la sua autonomia, ora rischia di trovarsi a un bivio: chiuder battenti o aprirsi anch’egli alla lottizzazione dei privati.
Almeno due morali si possono trarre da tutto ciò: la prima è che la crisi è servita a mettere a nudo i limiti di una deriva culturale di ben più lungo periodo. La seconda è che se si vuole uscire dall’impasse del settore senza troppi danni occorre partire alla radice, ovvero dalle politiche culturali. Perché, è bene ricordarlo, responsabili della crisi sono il settore dell’economia e il modello del capitalismo moderno.
Cercare il capro espiatorio nelle pubbliche collezioni è un po’ come sparare sulla croce rossa. Invece è proprio questo il settore che occorre tutelare e, se possibile, restituire ruolo e autonomia ad esso deputati.

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*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 55. Te l’eri perso? Abbonati!

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