11 maggio 2017

VIVA, ARTE VAGA!

 
Tra Arsenale e Giardini “Viva Arte Viva” svela, attraverso opere diverse per tecnica e linguaggi, criticità e domande. Vi raccontiamo a caldo il nostro primo punto di vista

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“Una biennale per gli artisti e degli artisti”: così nelle indicazioni di “Viva Arte Viva”, la mostra di Christine Macel ai Giardini e all’Arsenale. Un’esposizione che dovrebbe essere all’insegna della libera espressione creativa chiamata a mettere in forma l’ovunque che ci distingue nell’epoca della globalizzazione, alla ricerca di chissà quale identità perduta o affondata. 
Certo è difficile contenere la complessità del presente attraverso opere che sfiorano ma non approfondiscono nulla in particolare, all’insegna dell’ “ovunquismo”, molto politically correct, con una parata di pezzi che tendono all’onirico ma non fanno precipitare, in bilico tra sogno e incubo senza porre un limite anche al rischio dell’autorefenzialità. E infine, capite le regole del prevedibile gioco, questa biennale “vivacchia” senza lode e senza infamia. 
Eccessivamente intimista, “Viva Arte Viva”, è priva di un fil rouge che snodi, da una sezione a un’altra, le intenzioni ideologiche che restano del tutto sfuggenti. 
Potremmo paragonare questa edizione 2017 a un film che ha una ricercata fotografia ma manca di sceneggiatura, di un racconto che leghi il passato al presente, se si escludono alcune sale di maestri più storicizzati o altri riusciti ambienti dedicati alla produzione di Kiki Smith (in home page), ai poetici libri “svuotati” di Geng Jiangyi (sopra), John Latham e altri.
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Ci sono poi le carte leziose, racchiuse in scatole di latta, di Abdullah Al Saadi, le composizioni in stile frottage di Cyprian Muresan realizzate a partire dalle pagine di volumi dedicati ai Maestri del passato, come Masaccio, Antonello da Messina, Giorgio Morandi, Tiepolo o Correggio. 
E così, tra un’apparente profondità della leggerezza e tematiche “politiche” appena accennate non si distinguono opere o progetti che affrontano la spina nel fianco di un’Europa mancata, come la questione dei migranti, e l’investigazione del post-capitalismo appare “soft”: in questo contesto si inserisce anche la grande installazione di Hassan Sharif, che installa i lavori contenuti nel suo studio in una serie di scaffali, come fossero merce in un supermercato: arte come prodotto di consumo. Niente di nuovo sotto il sole.
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Prevale una sensazione edulcorata, decorativa, che anestetizza lo sguardo dello spettatore, perché arranca nei contenuti. Dopo la biennale che poneva gli imperativi etici di Okwui Enwezor, questo ritorno a una poeticità vacua corrisponde forse a un’attitudine di evasione?
Di sala in sala prevale l’assemblaggio di matrice “nuovo realista” degli anni ’60, e non a caso Raimond Hains viene celebrato con un’autentica mostra nella mostra: è un’arte che vivacchia perché si ha l’impressione di un deja vu che non sorprende e non impressiona, né suggestiona.
Di “vivant”, questa mostra, ha l’atelier di Olafur Eliasson e dei suoi studenti e migranti, impegnati come in una bottega artigianale per fare un’arte “utile”: costo lampada Green Light, griffata, 250 euro. 
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L’altro episodio “vivace” si svolge a tavola, con una serie di progetti paralleli e di performance, che intendono mettere gli artisti al centro della mostra: ogni venerdì e sabato, fino al 26 novembre, un artista terrà una “Tavola Aperta” incontrando il pubblico durante un pranzo da condividere, al fine di descrivere il proprio lavoro e dialogare. E sai che novità! Vogliamo citare Rirkrit Tiravanija con le sue zuppe confortanti per i visitatori esausti dalle gincane tra un padiglione e l’altro, nel lontano 1993?
Tornando a questa 57esima edizione prevale una ricerca feticistica, intenzionalmente organicistica, in cui il protagonista è l’oggetto e non del desiderio, in cui anche la documentazione si svuota di contenuti, che sia chiaro non mancano, ma restano sottesi. 
Altro aspetto che lascia perplessi, è il ruolo predominante della presenza femminile nel senso più ingenuo, con una vaghezza che alla fine lascia insoddisfatti. 
Un po’ come risulta come nella lunghissima apertura sul “rammendo” all’Arsenale, dove le pratiche di cucito servono a ricompattare il mondo, ma restano anch’esse piuttosto male imbastite, vicine al bric-a-brac. 
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Insomma, tutto male? Queste le nostre impressioni. Buono il fatto che, per una volta (sarà colpa della crisi?) non si parla di superuomini ma di debolezze, di “stati umani”. Gli artisti, insomma, vengono dipinti come “animali sociali” e non come sociopatici, per fortuna, ma tutto il contesto sembra chiuderli in sé stessi, quasi come monadi che si rifugiano, appunto, nel loro recinto. 
Buono il concetto di apertura, dove l’otium e il negotium vengono declinati, a partire dalle immagini di Mladen Stilinović: si mette in scena la predisposizione degli artisti di inventarsi il tempo, al di fuori dei cicli disumanizzanti della produzione, impegnandosi anche nel “non fare” per realizzare un’altra dimensione  più creativa all’insegna dell’effimero.
E allora la domanda è: ma che c’è di nuovo da vedere in questa Biennale 2017? È il nostro sguardo plurimo sul presente, e un approccio percettivo aperto a contenere non una ma diverse realtà insieme, che si rigenera costantemente. E fintanto che l’arte sarà discussa, pensata, criticata, celebrata come espressione di libertà, anche se vaga, sarà toujours vivant
Jacqueline Ceresoli

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