06 settembre 2012

Tutte le cose emergono dal nulla

 
Per Franco Vimercati, l'oggetto è il protagonista – unico, seriale – di una riflessione profonda sul linguaggio fotografico. Cambiamenti impercettibili che costringono all'attenzione. Ma per l'artista milanese anche il lavoro è contemplazione. La mostra, appena inaugurata in quell'intrigante luogo che è Palazzo Fortuny a Venezia, ci riporta nel suo mondo rigoroso. Ma anche un po' magico [di Manuela de Leonardis]

di

«Era uno zen borghese occidentale», così Elio Grazioli ricorda Franco Vimercati (Milano 1940-2001) nel testo pubblicato nel 2002. Una sintesi biografica nata da un’amicizia recente, nutrita da telefonate e lunghe conversazioni tra l’artista e lo storico e critico d’arte.

Uno di questi incontri, nel luglio 2000, nell’appartamento di Vimercati a Milano, venne codificato nella formula dell’intervista che viene pubblicata per la prima volta nella monografia edita da John Eskenazi/Skira, realizzata in occasione della mostra Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla (a cura di Elio Grazioli), a Palazzo Fortuny fino al 19 novembre.

Un’intervista bellissima, peraltro, che con grande disinvoltura introduce al pensiero e alla ricerca dell’artista: Vimercati non si sentiva fotografo, nel ’59 si era diplomato all’accademia di Brera, aveva frequentato il clima intellettuale del bar Jamaica e, successivamente, lavorato per anni come grafico.

Un autore poco conosciuto, interprete coerente e rigoroso di una fotografia intesa non come rappresentazione del mondo, piuttosto come riflessione intorno al suo stesso linguaggio, alle potenzialità del mezzo fotografico.

La serialità è il primo momento di questa sua ricerca. In Un minuto di fotografia (1974) – con cui si apre la mostra al piano terra dell’antico palazzo veneziano – vediamo inquadrata per tredici volte (altrettante sono le stampe in bianco e nero) la stessa sveglia con le lancette che si muovono impercettibilmente.

In Bottiglie di acqua minerale (1975), nella sala laterale del piano nobile, trentasei bottiglie di acqua minerale di una nota marca, solo apparentemente identiche. Come è nella sua modalità, Vimercati posiziona la macchina fotografica sul cavalletto, usa lo stesso sfondo e la stessa luce e scatta, scatta, scatta: in questo caso gli scatti sono 36, esattamente quanto le pose di un rullino.

Già in queste prime serie fotografiche (che erano state precedute dall’unico lavoro di matrice documentaria, sebbene i soggetti siano immobili, realizzato nel ’73 fotografando gli abitanti di un paese delle Langhe) libertà, contemplazione e lavoro appaiono come chiavi d’accesso.

Parole ricorrenti anche nella lunga intervista rilasciata a Grazioli. Libertà di non rendere conto a nessuno, intanto, che si può tradurre anche con integrità. Quanto a contemplazione e etica del lavoro, per l’artista si equivalgono. «La contemplazione è dare attenzione a qualche cosa, nel lavoro tu devi dare attenzione a quello che fai, devi misurare la temperatura dello sviluppo, l’intensità della luce, l’annerimento di una superficie, eccetera. Non è semplice stampare una fotografia. Se sviluppi un minuto di più, cambia… il sapore, cambia il senso. Occorre un’attenzione, una contemplazione anche nell’operare. Pensa alla cerimonia del tè. L’ultima cosa che interessa è proprio il tè».

Franco Vimercati torna a fotografare lo stesso oggetto, giorno dopo giorno, senza porsi un limite temporale. Si tratta di oggetti presi dal quotidiano, il suo. Messi a nudo, perciò, nell’intimità che li lega a colui che sta dietro all’obiettivo: listelli di parquet (qui le venature diverse impongono una caratterizzazione più evidente), mattonelle del pavimento con quei pattern geometrici che richiamano i motivi dei tappeti antichi orientali (particolarmente amati e collezionati dall’artista), e anche la zuppiera, con i segni del passato con la sbeccatura e le crepe, ereditata dai vecchi proprietari di casa (Il ciclo della zuppiera impegnerà l’autore per un periodo che va dal 1983 al 1992).

Poi sarà la volta degli oggetti capovolti – il barattolo con le zollette di zucchero, la moka, la grattugia… Dei calici sfocati, delle foto ingrandite e rimpicciolite. Oggetti prevalentemente sinuosi, morbidi, fatti di curve più che di spigoli – spesso riflettenti – che per qualcuno rimandano a Morandi, da cui puntualmente Vimercati prende le distanze, pur dichiarandosi interessato al suo lavoro.

La fotografia di Vimercati, infatti, non è metafisica né simbolica, rientra piuttosto nel concettuale. Non è casuale che egli stesso dichiari il suo apprezzamento per Robert Ryman, Sol LeWitt, On Kawara, Roman Opalka, e soprattutto Enrico Castellani, del cui lavoro sottolinea l’importanza della ripetibilità all’infinito.

Quanto ai fotografi, considera i suoi maestri Talbot, Atget e Sander; conosce Luigi Ghirri all’inizio degli anni Settanta e diventano amici e, prima ancora, nel ’71-’72, Ugo Mulas per l’impaginazione della rivista Zoom. L’incontro è decisivo: parlano di fotografia, il maestro gli mostra le sue immagini e anche i libri di Diane Arbus, Lee Friedlander, Robert Frank che aveva conosciuto negli Stati Uniti. Quanto basta perché Vimercati decida di riprendere in mano il lavoro artistico, accantonato da tempo, ripartendo proprio dalla fotografia.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui