27 novembre 2012

Medioriente, clic e chador

 
Due spazi londinesi il V&A Museum e il Rose Issa Projects fanno il punto sulla produzione fotografica proveniente dalla Mezzaluna Fertile. Trenta artisti nella mostra al Victoria & Albert e una selezione più ristretta nello spazio no profit della curatrice Rose Issa. Due occasioni per osservare la tendenza sempre più concettuale della fotografia araba. E l'affermazione di molte donne

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Londra, 12 novembre 2012. Tre sono le parole chiave della mostra “Light from the Middle East: New Photography”, curata da Marta Weiss alla Porter Gallery del Victoria & Albert Museum (fino al 7 aprile 2013): recording, reframing e resisting. L’atto del fotografare non solo come documentazione, ma partecipazione attiva del fotografo alla realtà contemporanea che, soprattutto in Medioriente, è più complessa che altrove.

La fotografia è lo strumento adatto per sollecitare argomentazioni, porre domande, stimolare riflessioni. Non è casuale, quindi, che l’Art Fund – istituzione pubblica britannica – abbia scelto di concentrarsi sulla fotografia del Medioriente per l’acquisizione di 95 opere (tra il 2009 e il 2012), da donare alle collezioni del British Museum e Victoria & Albert Museum.

La mostra Light from the Middle East: New Photography (con il supporto di VisitBritain) ne presenta al pubblico un’ampia selezione attraverso le opere di trenta artisti di diverse generazioni (da Abbas a Newsha Tavakolian) provenienti da tredici diversi Paesi, inclusa la Turchia (Sukran Moral), l’Afghanistan (Atiq Rahimi), il Bahrain (Waheeda Malullah), Israele (Tal Shochat) e il Marocco (Yto Barrada, Hassan Hajjaj).

Ma è all’Iran che spetta il ruolo di capofila con una notevole presenza al femminile: la copertina del catalogo è affidata ad un’immagine seppiata di Shadi Ghadirian della serie Qajar (1998), in cui la giovane donna che indossa il velo è alle prese con gli opposti: modernità/tradizione, pubblico/privato. È seduta in una posa tipica da foto di studio d’altri tempi, ma ha gli occhiali da sole alla moda. Tematiche ricorrenti nel lavoro di Ghadirian che le rende appetibili con l’ingrediente dell’umorismo e dell’ironia, senza nulla togliere alla forza sottintesa dell’atto di ribellione.

Rispetto a questa formula, formalmente legata al linguaggio fotografico tradizionale, di cui tra gli altri esempi ci sono le due immagini della serie I am (2005-2007) della saudita Manal Al-Dowayan, i ritratti colorati a mano dei marinai yemeniti dell’egiziano Youssef Nabil e il reportage Iran Diary (1978-19) che ha reso celebre Abbas, assistiamo all’evoluzione della fotografia stessa in una direzione sempre più concettuale.

Portavoce di questa tendenza che passa attraverso la manipolazione digitale è Walid Raad, vincitore del Premio Hasselblad 2011, di cui è esposto Notebook Volume 38: Already Been in a Lake of Fire (Plates 63-64), un lavoro del 2003. Anche Taraneh Hemami e Nermine Hammam (iraniana che vive a San Francisco la prima, egiziana che vive al Cairo la seconda), si appropriano di immagini di cui non sono necessariamente autrici (o magari lo sono in parte) per ricomporle, cancellarle, interpretarle offrendo interessanti chiavi di lettura sulla storia contemporanea.

Sguardi dall’interno per entrambe. In Most Wanted (2006) Hemami affronta l’argomento del come vengono vissuti in Occidente, all’indomani dell’11 settembre, arabi e mediorientali. Utilizzando il formato del poster, riproduce le immagini apparse su un sito internet del governo degli Stati Uniti di persone ricercate. «Ho rifotografato quelle immagini, scegliendone solo un numero limitato rispetto alle 72 originali e le ho manipolate al livello digitale, per poi procedere eliminando con il rasoio i particolari che potessero renderle riconoscibili», spiega l’artista.

Diversamente Hammam si sofferma sul prima e dopo gli eventi della Primavera Araba. Nella coloratissima serie Upekkha (2011) fotografa i soldati di piazza Tahrir in tutta la loro fragilità umana. Poveri diavoli, molti dei quali giovanissimi, che trasporta all’interno di panorami idilliaci, vistosamente e forzatamente artificiali, legati all’immaginario virtuale del Paradiso islamico: cascate, cime innevate, laghi primaverili. Per la fotografa, che proviene da un’esperienza decennale di regista cinematografica e poi dalla grafica, si tratta di declinare un aspetto della prima fase della rivoluzione.

Una dissonanza che diventa stridente, perché proporzionata all’aggressività e alla violenza degli stessi soldati (stavolta le immagini sono prese dai quotidiani o da internet) durante i cortei e le manifestazioni pacifiche. Elmetti, manganelli, pistole puntate sui dimostranti vengono inseriti dall’artista in un contesto tratto dalla tradizione pittorica giapponese attraversata dall’armonia e dalla delicatezza. Questo nuovo lavoro – Unfolding (2012) – è attualmente in mostra in occasione della collettiva “AKS and SUWAR: Pictorial Representation from Iran and The Arab world” (fino al 20 dicembre) nello spazio espositivo Rose Issa Projects, che recentemente ha traslocato da Kensington a Great Portland Street, una traversa di Oxford Street.

Rose Issa, curatrice, scrittrice e producer che ha vissuto in Iran, Libano, Francia e negli ultimi venticinque anni a Londra è la maggior esperta di arte iraniana e araba contemporanea, con una lunga esperienza anche nel campo del cinema: a Parigi, nel 1982, ha organizzato il primo Arab Film Festival. Il suo nome è strettamente legato alla mostra “Light from the Middle East: New Photography” (in Italia l’abbiamo vista collaborare a “Memorie Velate: Arte contemporanea dall’Iran” – Biennale Donna di Ferrara 2009, a cura di Lola Bonora e Silvia Cirelli).

I lavori di alcuni artisti iraniani e mediorientali che ha lanciato nel mercato internazionale, entrati nelle collezioni del V&A e del British Museum, sono esposti anche nei due spazi che si guardano, di qua e di là di Great Portland. Tra gli artisti più interessanti l’egiziano Chant Avedissian con la sua parete di disegni della serie Cairo Stencil, un viaggio iconografico nei vari strati della società tra personaggi comuni e star (tra cui il volto di Om Kalthoum, diva di tutti i tempi) e il marocchino Hassan Hajjaj, interprete in chiave pop di una cultura che passa attraverso la tradizione per sfondare i propri orizzonti.

Tra le donne, oltre alla giovane saudita Jowhara Al Saud che esplora il privato del mondo da cui proviene, si fa notare una “bad girl” straordinaria: la palestinese Radea Saadeh. Se nella galleria di Rose Issa la vediamo indossare i panni di una Penelope che sferruzza nello scenario apocalittico (una realtà quotidiana per gli abitanti dei Territori Occupati) di case palestinesi buttate giù dai bulldozer israeliani, su una parete della Porter Gallery del V&A è sdraiata alla maniera dell’Olympia di Manet con il corpo completamente avvolto dalle pagine di un quotidiano palestinese. Affermare la propria identità vuol dire per lei anche ritrovarsi a fare i conti con la società stessa da cui proviene, in cui il ruolo della donna non è affatto scontato.

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