28 marzo 2013

Inventare il museo

 
Fiona Tan è da ieri al MAXXI dove ha inaugurato una mostra esemplare. Capace di riflettere sul museo, come dispositivo di raccolta di oggetti, ma anche di secco controllo. Ma dove soprattutto è riuscita a confrontarsi con forza ed eleganza con lo spazio di Zaha Hadid. Dimostrando che non è ingovernabile ma che, come tutti gli ambienti museali, va capito e rilanciato con il proprio linguaggio. Perché è qui che si misura la statura dell’artista

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Fiona Tan è riuscita dove altri hanno fallito o, più semplicemente, si sono piegati alla prepotenza architettonica di Zaha Hadid. La Quinta Galleria del MAXXI, che altre volte ha subito una violenza (o un aggiustamento), pari alla violenza visionaria dell’architetta anglo-irachena, con allestimenti che cercavano di riquadrarla, rintuzzarla, creando pseudo-ambienti che non reggevano l’impatto di un pavimento obliquo, dell’affaccio vertiginoso, di quello spazio scandalosamente spalancato, oggi ospita un’installazione che permette di apprezzarne appieno l’azzardo dell’autoesposizione messo in scena. 
Il segreto è nello sguardo dell’artista. Certo, il tempo, come sottolineato dalla curatrice Monia Trombetta e da Anna Mattirolo, la possibilità di entrare con lentezza nell’opera che Fiona Tan consente, fanno la loro parte. Ma questo tempo non ci sarebbe se non ci fosse la possibilità dello sguardo che l’artista posa sulle cose e che fa posare a noi visitatori fino a percepire la vastità dell’ambiente. Che significa? Che installando in quella sala i quattro maxischermi, appesi quasi miracolosamente al soffitto, Fiona Tan ci fa vivere, attraverso l’arte, attraverso le storie e le immagini che si snodano lentamente sugli schermi, quel luogo liberato da muri e divisioni posticci facendolo finalmente fluire nella sua pura spazialità.

Inventory è l’opera che l’artista olandese ha concepito per il MAXXI in collaborazione con il Philadelphia Museum of Art, e presentato in anteprima a Roma. Il nome viene dal video realizzato per questa mostra, ma che dà il titolo a tutta l’operazione. Il punto di partenza è la percezione che questa artista minuta, nata in Indonesia, cresciuta in Australia e da anni cittadina olandese, ha avuto del museo romano e la complessa idea che ha del museo in genere. 

Il MAXXI le ha evocato le Carceri d’invenzione che Piranesi, architetto da lei ampiamente studiato, ha realizzato in alcuni suoi disegni. Nessuno ci aveva pensato prima, ma le scale vorticose che Piranesi disegna, gli spazi che sembrano quasi volteggiare, più che appoggiarsi a pavimenti e pareti, possono essere, in effetti, degli antesignani architettonici del museo romano. Nessuno ci aveva pensato prima, ma Fiona Tan sì. E che si può fare in questi spazi visionari? «Intraprendere un corpo a corpo, lavorare come se si fosse in un ring con l’architetta», ha affermato lei. Con una cifra, però, radicalmente opposta. Affrontandone la fluidità veloce con la lentezza dello sguardo. Con un tempo che si dilata, fino ad appropriarsi di quegli spazi. 
Così nasce il progetto Inventory, che inizia dalle tavole, riproposte in stampa, di Piranesi, prosegue al piano terra con la videointallazione Correction del 2004, che prende spunto dall’idea del Panopticon realizzato nel 1791 dal giurista e scrittore inglese Jeremy Bentham, che concepì un sistema carcerario il cui controllo era dato da un unico punto di guardia posto al centro. Fiona Tan ribalta la prospettiva, facendo di noi, posti al centro dell’installazione, il dispositivo di controllo che non sorveglia, ma è scrutato da 330 ritratti di carcerati, in piedi e immobili che si alternano nei sei maxischermi, ripresi nelle prigioni californiane e dell’Illinois. 
L’impatto è molto forte, ma c’è dell’altro. È stato Michel Foucault ad avvicinare il museo a un dispositivo di controllo e, dopo di lui, altri critici, tra cui il sociologo Tony Bennett e lo storico australiano Graeme Davison, hanno rilanciato sulle convergenze semantiche e architettoniche tra queste due strutture apparentemente così distanti, ma accomunate dall’incarnare una «retorica del potere». Fiona Tan riprende questo accostamento, ma lo ribalta e lo attualizza ponendovi al centro lo spettatore.
Dopo queste due “stazioni”, Inventory continua nella famosa Quinta galleria, dove per primo troviamo il video che dà il nome alla mostra e dove la riflessione sul museo si declina in altre immagini. Nel primo schermo scorre il museo come collezione di feticci, oggetti inanimati sui quali il collezionista ha operato un forte investimento emotivo, non in grado però di restituire vita a quegli oggetti, ma che anzi quasi li congela. Fiona Tan ha girato le immagini di Inventory (2013) nel museo di John Soane, architetto neoclassico inglese che nel 1820 apre al pubblico la propria casa di Londra che custodisce molte antichità. L’artista si sofferma su questi oggetti con uno sguardo venato di “comprensione”, ma dove emerge la distanza verso un mondo bloccato nella memoria e nella fissità del feticcio.

Poco più avanti prende vita il museo immaginario di Marco Polo (Disorient, 2009), diviso in due mondi paralleli che scorrono, lentamente, ma direi quasi inesorabilmente, su altrettanti schermi: il mondo incantato, speziato e variopinto, catturante e temibile che il viaggiatore italiano poteva aver registrato nel suo lungo peregrinare in Oriente, e il mondo degradato, aggredito da un feroce inquinamento e da una maligna povertà, che invece registra il viaggiatore di oggi. Mondi opposti, ma unificati dallo sguardo dell’artista che penetra gli interni, scivola sulle persone, si ferma un istante sui volti, si dilata nei paesaggi, rigogliosi o tristi che siano. Sì, Tristi tropici, verrebbe da dire citando Lévi-Strauss, Tristi tropici di oggi, cui si aggiunge  la desolazione del mondo di Inujima, isola giapponese abitata solo da una cinquantina di vecchi e ridotta a un niente dopo 400 anni di sviluppo industriale.
Il museo di Fiona Tan si conclude qui. Non un buon viatico, forse. Ma sicuramente uno sforzo esemplare per riflettere su questa realtà che tanta parte ha nel nostro mondo di oggi.

1 commento

  1. Fiona Tan presenta a Roma in anteprima mondiale il suo lavoro più recente, l’installazione video Inventory. Insieme alla curatrice della mostra, Monia Trombetta, ha ideato per il suo progetto espositivo al MAXXI un allestimento in grado di dialogare con gli spazi fluidi e dinamici di Zaha Hadid. Il foyer del secondo livello del museo è stato scelto dall’artista per ospitare una selezione di riproduzioni digitali dalla serie di incisioni Carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi. Le stampe dell’architetto veneto rappresentano la principale fonte di ispirazione per molte delle opere in mostra. Da un lato, le carceri piranesiane riprendono il tema cardine di Correction (2004), il lavoro esposto nella sala Claudia Gian Ferrari, che circonda l’osservatore con oltre trecento ritratti filmati di guardie carcerarie e prigionieri americani. Dall’altro i capricci di scale, arcate e capriate di Piranesi entrano in relazione con gli intrecci di rampe del MAXXI, guidando lo sguardo intorno a scoprire i coinvolgenti spazi architettonici ideati da Zaha Hadid. Fiona Tan ha inoltre affiancato le versioni originali e quelle finali delle tavole di Piranesi: l’autore infatti, non soddisfatto del risultato, tornò a più riprese sulle lastre, in un processo di rielaborazione grafica durato in alcuni casi più di vent’anni. La perdurante insoddisfazione di Piranesi per il suo lavoro, che cercò costantemente di migliorare, è un chiaro esempio della complessità del procedimento di traduzione del reale per mezzo delle immagini, che avviene attraverso la mediazione creativa dell’artista. Fiona Tan analizza il rapporto tra realtà e opera d’arte nelle tre video installazioni esposte nella Galleria 5 (Inventory, 2012; Cloud Island, 2010; Disorient, 2009): ne deriva una complessa riflessione sul vano tentativo di rendere permanente ciò che è transitorio, giocata sul filo della memoria, per sottolineare l’impossibilità del raggiungimento di una perfetta traduzione della realtà con qualunque medium.
    Sempre nella Capitale, in questi giorni, l’Istituto nazionale per la grafica è sede di un’interessantissima personale di Marco Tirelli: Immaginario, a cura di Ludovico Pratesi. La mostra presenta al pubblico un aspetto inedito della ricerca dell’artista, puntando l’obiettivo sul processo creativo più che sull’opera conclusa. Disegni, schizzi, progetti, bozzetti, tavole fotografiche invadono le pareti delle sale di Palazzo Poli, in un sovraffollato allestimento che svela l’intero repertorio iconografico su cui si fonda la ricerca di Tirelli e offre allo sguardo curioso dell’osservatore un eccezionale archivio visivo. Il flusso continuo di immagini si riversa, come in un serbatoio, nei diari dell’artista, esposti per la prima volta e ricchissimi di scritti, pensieri, suggestioni, schizzi e impressioni. L’esposizione dimostra quanto Tirelli sia stato influenzato da maestri dell’incisione quali Morandi, Dürer e Rembrandt; ancora una volta, Piranesi si ripresenta come modello ideale. Nel testo del comunicato stampa della mostra è riportata una significativa dichiarazione di Tirelli: “La mia attenzione si focalizza indiscutibilmente su Piranesi, figura con cui credo di avere molte affinità. Lo considero uno dei più grandi artisti del passato, mi ritrovo molto nel suo pensiero, nella sua visione. Piranesi era figlio del suo tempo e dell’idea neoclassica circa l’immutabilità del tempo. Vedeva nella Roma antica l’incarnazione dell’ideale puro, eterno, immutabile. Avrebbe desiderato fissare quella perfezione per poterla perpetuare. Ha comunque vissuto un violento contrasto interiore, combattuto tra l’idea di far rivivere la classicità dell’impero romano come modello di immutabile perfezione, e d’altra parte consapevole che quest’ultima ci sia pervenuta solo in frantumi e rovine, ovvero che il mondo sia soggetto al tempo, alla trasformazione, e dunque alla dissoluzione. Da qui la sua ossessiva catalogazione dei reperti. Come se della perfezione non si potesse far altro che catalogarne brandelli. Piranesi artista tragico”.

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