06 luglio 2016

DOVE VA LA FOTOGRAFIA?

 
Si intitola “Lo Stato delle Cose” il summer show degli studenti di Fondazione Fotografia Modena; siamo andati a scoprire la direzione delle immagini, oggi

di

Come ogni anno, anche in questo 2016, per una manciata di settimane potrete farvi un’idea della direzione della fotografia contemporanea. Anzi, di quella futura, perché stiamo parlando della mostra di fine corso degli studenti del secondo anno del Master di Fondazione Fotografia Modena, e che appunto nel biennio 2015-2016 hanno lavorato, studiato, si sono confrontati e hanno presentato i loro progetti.
E se per certi versi ancora si possono scoprire tra le pareti alcuni “peccati di gioventù”, in tutti i casi è forte una ricerca che sembra non spostarsi da alcuni temi fondamentali e quasi “antichi”: la percezione dell’io e dell’altro, e dello spazio/ambiente.
Si potrebbe dire che il Summer Show 2016, intitolato “Lo stato delle cose”, sia un’edizione scientifica, ma che per i prossimi anni forse dovremmo aspettarci un uso delle immagini d’arte meno documentaristico, e più intimista. 
E anche quando si “recensisce” un paesaggio vituperato – come nel caso di A misura di braccio di Andrea Luporini, 1984 – lo scatto è sottile, non indagatorio: l’autore vuole metterci di fronte agli orrori quotidiani che ci aspettano appena varcata la soglia di casa, che senza fare tragedie o sceneggiate siamo disposti a tollerare, e con i quali conviviamo. 
Francesca Ferrari A lato, 2016 particolare da slideshow Courtesy dell’artista
La spiaggia devastata e “caraibica” di Rosignano Solvay, le banchine squadrate dei porticcioli e aree limitrofe della Liguria o le abitazioni che costellano colline e che forse oggi sono considerate “emblemi” del paesaggio sono attraversate da un obiettivo clinico, da una serie di immagini che potremmo definire off, e che solo dopo l’elaborazione sono in grado di raccontare quel che celano dietro la calma piatta. 
Per il resto, più che di luoghi, si scelgono gli spazi: da sceneggiare come accade sia nel progetto A Lato di Francesca Ferrari, che nel Testimone di Alessio Gianardi. In entrambi casi il protagonista è, sotto un punto di vista decisamente parziale, legato al frammento, il Cimitero di San Cataldo di Modena, firmato da Aldo Rossi, che nel progetto di Ferrari diviene un’entità architettonica di pieni e vuoti, presenze e assenze, dalla temporalità inconsistente come avviene in tutti i cimiteri, unici luoghi contemporanei dove lo scorrere del tempo, il giorno e la notte, il passare delle stagioni, restano al loro scorrere naturale. E con un’impronta cianotipica di un’apertura dell’ossario dello stesso cimitero Gianardi, con un lavoro dalla forte prova concettuale, ci chiede se la luce abbia impresso sulla tela (e in camera oscura) l’architettura o se quest’ultima possa essere considerata un corpo permeabile, raccogliendo con questo procedimento quel che vi passa attraverso. Poi ci sono gli spazi del buio di Somewhere, di Giulia Fini, dove la luce è metafora della necessità di ricerca; una ricerca che si mischia con l’empiricità della misurazione umana, e dunque del corpo, in Spazio altro di Simone Bulgarelli, alle prese con lo scardinamento della definizione funzionale di un oggetto (in questo caso di una panchina), rovesciando, inclinando, sovvertendo le regole di un gioco precostituito grazie all’utilizzo di quello che è, appunto, un altro spazio in grado di negare un’appartenenza definita dell’oggetto. 
Simone Pellegrini Extend me. I am S. 2016 Inkjet print Courtesy dell’artista
E poi ci sono i corpi, da quello riscattato nelle forme dell’anatomia di Simone Pellegrini, al corpo sentimentale di Elena Canevazzi, che a sua volta materializza un’assenza: in 163 centimentri (altezza della giovane fotografa) sono contenute infinite fotocopie di un’immagine a lei cara: il ricordo si fa ingombro, ma la memoria vacilla come una pila di fogli di carta. E di un corpo in transito, da bozzolo in via di definizione a corpo scosso e sospeso tra un “non più” e “non ancora” ci parla Orlando Myxx, 1974, nel progetto intitolato Orlando: in between, che è sia autobiografico e sia ispirato a Virginia Woolf e agli studi queer, e che ridefinisce il concetto di transizione di genere sotto una prospettiva più interiore, quasi onirica. E di un corpo studiato nella forma, scandagliando superfici e imperfezioni, racconta l’azione di Sara Savorelli, in un’azione filmata in camera fissa che si tramuta, dopo il suo inizio, in una sorta di rituale privato. Quasi un mantra che fa perdere il senso dell’originale “indagine formale”.
Discorso a parte per i progetti di Francesco Cardarelli e Livia Sperandio: nell’Annunciazione di Cardarelli acqua e terra si rimescolano idealmente partendo da un fatto realmente accaduto nella vita dell’artista, ricostruendo un’installazione (in questo caso la fotografia è ben poca roba) che muove dall’elemento acqua contenuto nell’Annunciazione Martelli di Filippo Lippi, e dal principio alchemico del Solve et Coagula; nell’Icona di Sperandio è invece la figura ad essere indagata nel senso più lato e minimale del termine, avvicinandola al concetto di perfezione attraverso pochi, secchi, passaggi, tra stampe e pennarelli su carta.
Elena Canevazzi 163 cm, 2016 Installazione di fotocopie Courtesy dell’artista Francesco Cardarelli Annunciazione, 2016 still da video Courtesy dell’artista

 

In ultimo, però, una menzione speciale. Va a Sara Vighi, reggiana classe 1969, e alla sua pratica “geoiconografica”, che descrive così: “In redazione si assemblano unità minime (immagini e testi) per produrre oggetti complessi (libri). Si prova, si corregge, si ricomincia daccapo. Anche all’Emilia Romagna si addicono situazioni minime, perché in essa tutto è contenuto e semplificato, a cominciare dalla bellezza. Ma grazie a questa sua caratteristica la regione può essere modellata, assumere forme libere e reversibili, adattarsi a ognuno. A Rimini e a Bologna tutto è possibile. Come in redazione, quando il lavoro è solo alla prima bozza”. 
Ed è così che nascono paesaggi che divengono grafici, e che attingono a piene mani a quel luogo poetico descritto di Luigi Ghirri o Pier Vittorio Tondelli, a quell’Emilia che è stata anche Don Camillo e Peppone, le balere e la tradizione enogastronomica, i vitelloni e i B-movie, e che è l’innesco di un paesaggio dove ognuno può costruire la propria tavola degli elementi, partendo da uno scatto automatico, o spostando l’obiettivo per scoprire meccanismi fuori dagli automatismi. Un po’ come ci ha insegnato Franco Vaccari, altro grande modenese. Sarà ancora qui, che va la fotografia? 
Matteo Bergamini

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui