18 novembre 2005

Biennali invisibili, obiettivi sensibili

 
di alfredo sigolo

Si chiama “Sindrome di Marco Polo”, ansia che spinge alla scoperta e continua esplorazione di nuovi mondi e culture. Dagli anni ‘90 ci siamo abituati alla nascita continua di nuove Biennali d’arte. Ma ormai i calendari sono talmente fitti di appuntamenti che l’esotismo della Sindrome di Marco Polo del popolo dell’arte per lo più si alimenta di un immaginario frammentario e virtuale fatto di nomi, loghi, rapporti e comunicati, immagini riprodotte, cataloghi e riviste. L’hanno chiamata Biennalizzazione...

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Si potrebbe cominciare dicendo “non solo fiere”. Di fatto disegnare la propulsione tentacolare che sta avendo l’arte contemporanea, tra festival annuali, simposi, vecchi e nuovi musei, raccolte pubbliche e private, collezionismi di ogni sorta ostentati come strumento di selfmarketing (una volta lo facevano solo gli americani), è affare improbo. In questo scenario le esposizioni pluriennali giocano un ruolo determinante. Anzi qualcuno ha definito Biennalizzazione la recente tendenza alla moltiplicazione di eventi a cadenza bi o triennale. Fin dalle sue origini, si pensi alle Biennali più note e più antiche come Venezia e São Paulo o a Documenta Kassel, la mostra biennale (nel caso di Kassel quinquennale) è un affare di identità culturale, seppur con sfumature diverse.
La più antica di tutti, Venezia, ha origine nel 1895 per dare luogo e corpo ai fermenti culturali che la città, per storia, tradizione e morfologia, catalizzava e cresceva dentro di sé. São Paulo, al contrario, proprio dal modello veneziano prende le mosse nel ’51, per diffondere la cultura della contemporaneità in Brasile e per forzare l’accesso del paese all’interno della scena artistica internazionale. A vederla oggi, quella nascita, suona quasi come un processo di globalizzazione ante litteram. Kassel, nel ’55, si pone come obiettivo la ricostruzione di un’identità germanica in un nuovo contesto europeo dopo la follia nazista e le tragedie di guerra e olocausto.
A proposito di Documenta, Anna Cestelli Guidi (1997) scrive che l’avventura delle biennali si sviluppa come una fenice che rinasce delle ceneri dell’istituzione museale; quei musei che per i futuristi erano cimiteri da distruggere e per Adorno “sepolcri di famiglia”. Il paradosso che sta nell’idea stessa della musealizzazione dell’arte contemporanea, dacché si suppone che nel momento in cui l’arte si cristallizza e si perpetua nel museo di fatto perde la sua stessa connotazione di attualità per diventar memoria, rese dunque la mostra periodica più idonea a docurappresentare, nel suo farsi, la cultura contemporanea.
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Pur nei modelli in continua evoluzione, in linea di principio le ragioni che generano una biennale non sono di molto cambiate nel tempo. Il vero motore? La legittimazione culturale. Semmai è veramente mutato il carburante che alimenta tale motore: il turismo globale innanzitutto, ma anche la velocità, quantità e qualità dell’informazione, gli interessi economici di colossi industriali, finanziari, delle fondazioni.
Le biennali continuano oggi ad ammantarsi di un’aura di apparente indipendenza rispetto al sistema del mercato, la cui ingerenza tuttavia è sempre stata riconosciuta fin dalle origini. E semmai oggi si manifesta su scala più ampia.
C’è una prima contraddizione da registrare: da un lato le biennali sono accusate di esser divenute una forma istituzionalizzata di colonialismo culturale dell’occidente (e dell’arte anglosassone in particolare) ai danni del resto del mondo, dall’altro tutte le biennali rappresentano ancor oggi il sogno di una forma di resistenza dell’arte al mercato globale e rivendicano un ruolo di promozione culturale per il territorio nel quale si sviluppano.
Di fatto una Biennale l’allure di evento pubblico ce l’ha ovunque, indipendentemente dalle specifiche connotazioni politiche, economiche o religiose dell’area o città che le ospita. Ecco perché la si vuole straordinaria vetrina, dichiarazione di volontà o di disposizione al dialogo e al confronto con l’esterno, nel rispetto delle differenze e contro le logiche di potere dei paesi forti. Ideali che per lo più sfioriscono nell’utopia donchisciottesca.
Still dal video di Sejla Kameric, Biennale di Tirana 2005
Lo dimostra anche la resistenza di questi eventi nel tempo. Tante sono infatti le biennali nate in tempi recenti, ma tante sono pure quelle morte o ridimensionate. Se non supportate da istituzioni, da un sistema strutturato, da un impianto relazionale, se viene a mancare il sostegno degli sponsor, il rischio che questi eventi esauriscano la loro spinta propulsiva nel giro di poche edizioni è forte. Ma c’è anche il rischio opposto, che essi diventino facili prede del sistema globalizzato.
Più che le Biennali di arti visive, forse un po’ troppo stereotipate e poco propositive, la vera novità a livello mondiale sono gli eventi legati ai nuovi media. Strutturate come simposi o work in progress, queste biennali riescono spesso a inventarsi formule originali, modelli inediti. E riescono anche a diventare realmente luoghi di dibattito critico e teorico, un po’ come accade anche per le Biennali nomadi, come Manifesta.
Eppure nell’uno come nell’altro caso, è sempre l’identità a fare da sfondo. Perché identità non può essere considerata solo geografica. La vera novità delle Biennali recenti è forse allora questa, l’esistenza cioè di sentimenti di appartenenza che valicano i confini nazionali e diventano identità territoriali, culturali, ideologiche trasversali, come appunto le comunità che operano nel campo delle applicazioni delle nuove tecnologie.
Ma eccoci alla seconda contraddizione. Se i confini delle identità culturali sono così assottigliati, se la territorialità geografica non è più in grado di rappresentarle, perché i grandi appuntamenti espositivi periodici continuano a cavalcare sentimenti nazionalistici e protezionistici che, nel caso delle recenti edizioni della Biennale veneziana, sono culminati nelle polemiche per la sottrazione del Padiglione Italia agli artisti di casa nostra?
Sia come sia, da una biennale all’altra, l’agenda del presenzialista bienalizzato si è infittita ormai al punto da diventare una matassa inestricabile. Così, se Benjamin aveva procrastinato la sostanza effimera del contenuto delle biennali, l’opera d’arte, in causa dell’avvento delle nuove tecnologie, oggi ci troviamo a far i conti anche con la sostanza effimera del contenitore, cioè delle Biennali stesse.
La mappa mondiale delle Biennali
L’epoca mitica del viaggiatore rischia infatti di trasformarsi in un grande equivoco; a conti fatti, tra calendari intasati e timori legati alla sicurezza dei trasporti, tra rischi di attentati e voli lowcost, la comunicazione rischia di viaggiare al posto del viaggiatore.
E’ la terza contraddizione: l’infittirsi degli appuntamenti espositivi e la loro sovrapposizione finiscono per far vivere tali eventi soprattutto di mediazione: pubblicità, resoconti, reportage, cataloghi, siti web, quando non si riducono addirittura al rango di un rigo su curricula di artisti, curatori e galleristi.
Quasi naturalmente viene alla mente l’operazione di Gregor Schneider all’ultima Biennale di Venezia. Vistasi rifiutare la sua installazione in piazza San Marco, l’artista non si è scomposto e ha messo in scena nient’altro che una rappresentazione virtuale dell’opera, che in catalogo si è tradotta in sei pagine completamente nere. Come dire l’arte ridotta alla sua ipotesi, alla sua assenza e traduzione mediatica nel progetto raccontato.
Niente di nuovo certo ma l’opera, nel caso specifico, assume un valore quasi paradigmatico per la Sindrome di Marco Polo con cui abbiamo preso le mosse. Non è Venezia ad andare, in senso metaforico s’intende, verso la Mecca, né la Ka’ba a trasferirsi in laguna (il progetto di Schneider era di ricostruire in Piazza San Marco la sacra pietra araba): ognuno resta al posto suo e l’evento si manifesta in un luogo neutro, il non-luogo digitale.

L’origine del termine Biennalizzazione, è giunta l’ora di dirlo, pare possa riferirsi alla metà degli anni ’90, all’epoca di un simposio che si tenne a Berlino proprio sul tema della Sindrome di Marco Polo. In quel contesto, si definì la Biennalizzazione come un fenomeno culturale e mass-mediatico che, a partire dagli anni ’90, portò alla proliferazione delle Biennali d’arte contemporanea in tutto il mondo. Biennalizzazione, cioè globalizzazione applicata al sistema dell’arte internazionale. Emerse infatti che molti degli artisti selezionati nelle più diverse Biennali erano sempre gli stessi, come fossero abbonati. La spiegazione è semplice: la loro afferenza diretta ad una cerchia di curatori internazionali che, a loro volta, avevano diretti o indiretti rapporti con musei, istituzioni, organi di informazione operanti nell’area anglosassone, gallerie private. Questo rizoma si sarebbe rivelato dunque strumento idoneo alla colonizzazione di aree geografiche del pianeta particolarmente vulnerabili.
A questo si potrebbe aggiungere che quelle stesse aree finiscono per assolvere ad una doppia funzione sul mercato dell’arte.
Un
Da un lato, certo, quello di esportare e globalizzare il prodotto artistico della cultura anglosassone. Ma dall’altro offrono anche l’incredibile opportunità di esplorare la scena artistica locale per selezionare nuovi scenari d’investimento. Globalizzazione dell’arte anglosassone e inglobalizzazione di artisti provenienti da luoghi privi di mercato proprio e che, per questo, una volta cooptati consentono nel breve termine margini di moltiplicazione di valore economico straordinari sulle piazze occidentali. Ma questo è marketing culturale o cultura del marketing?
Ed è l’ultima delle contraddizioni. Quelli che siamo soliti indicare come curatori indipendenti finiscono perciò per essere assolutamente dipendenti e collusi con gli altri attori del mercato dell’arte occidentale. Insomma, si potrebbe dire, tutto il mondo è paese… è solo una questione di scala.
Il mercato di un artista si può costruire in modi diversi. C’è chi passa per il martello delle aste e chi si accredita nel circuito dei grandi eventi pubblici. Le Biennali, così come le mostre nei grandi musei, sono una buona alternativa per validare e consolidare il mercato di un artista che, per caratteristiche magari meramente concettuali o formali, non trova sbocchi nel reazionario scenario delle aste.
Un esempio preso dall’attualità: il gallerista newyorkese Larry Gagosian ha aperto la stagione nel suo spazio di Londra con la personale di Carsten Holler. L’artista belga negli ultimi 12 anni ha collezionato qualcosa come 16 Biennali: da Pittsburg a Dakar, da Goteborg a San Paolo, da Yokohama a Santa Fe, in Lussemburgo, a Berlino; e poi Manifesta a Rotterdam, 3 biennali di Lione, 2 di Istanbul e 2 di Venezia. Eppure, nello stesso periodo, nelle aste internazionali sono passati appena 4 acquerelli, rimasti invenduti, e 2 installazioni, una di nuovo invenduta e l’altra aggiudicata al prezzo minimo di stima.
C’è da chiedersi se sia un caso che la Biennalizzazione sia andata di pari passo con la diffusione globale delle fiere d’arte. Che infatti sono divenute vere e proprie borse dell’arte internazionale, perfetto complemento delle biennali stesse.

alfredo sigolo

*pubblicato su Exibart.onpaper n. 25, ottobre 2005

[exibart]


11 Commenti

  1. Sulla BIENNALIZZAZIONE avrei da dire anch’io qualcosa…direi una PANDEMIA…ci stavo pensando da qualche tempo…mi lascia molto perplessa questa mercificazione rumorosa della detta arte contemporanea.L’unica risposta che ho trovato per adesso degna di nota viene da un artista che di BIENNALI ne ha viste passare:PATRICK MIMRAN.Cito una sua frase, una sua opera d’arte: ART IS NOT WHERE YOU THINK YOU’RE GOING TO FIND IT.

  2. E’ verissimo “la comunicazione rischia di viaggiare al posto del viaggiatore”!Io ho visto la Biennale di Venezia e di Lione, per AMORE dell’arte e per la sete di conoscenza.Ho perso per ragioni di tempo quella di Napoli,
    dei giovani artisti dell’europa e del mediterraneo…. MA: tutto ciò che si VEDE o si va ad incontrare, ciò che passa agli onori delle cronache, dell’editoria e di tutte le forme di comunicazione, nel tempo in cui viviamo, dovremmo viverli col “filtro” di una più giudiziosa Personalità,con un giudizio più cosciente di ciò che ci piace e di ciò che scegliamo piuttosto che di quello che ci viene “imposto”. Grazie Sigolo.

  3. ma è possibile passare le proprie opere direttamente alle case d’asta senza dover passare per gallerie e critici?

  4. caro giovane artistucolo,
    in teoria si, in pratica, è già talmente difficile per artisti sostenuti da gallerie essere visti che per gli altri diventa impossibile. mi spiego, come può il/la curatore/trice vedere il lavoro di un artista che non espone? come può venire a conoscenza della sua esistenza? se per la Biennale il curatore è uno, gli artisti sono un milione, la selezione minima che può fare per iniziare il proprio lavoro è quella di escludere quelli che non espongono e ridurre così la scelta a trentamila…sempre troppi ma almeno una possibilità c’è…alla fine ne vengono selezionati circa duecento, cioè meno dell’uno per cento degli artisti che hanno rappresentanza, e comunque, a distanza di cinque anni di quanti di quei duecento ci si ricorda? se va bene venti…lavoro duro quello dell’artista…in bocca al lupo

  5. no, ma non hai capito, la mia domanda era un’altra, quello che interesserebbe a me è trovare un modo di vendere direttamente senza mediazioni di gallerie e critici, magari direttamente alle case d’asta, sottoponendo direttamente ai compratori, è possibile o le case d’aste hanno sempre filtri di curatori gallerie etc?

  6. sindrome di marco polo o turismo gratuito a carico degli enti…? in altri campi si va per congressi… in hotel a 5 stelle…chiaramente.

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