29 maggio 2008

IN MEMORIAM DELLE BIENNALI

 
di marco enrico giacomelli

Dilaga su entrambe le sponde dell’oceano l’estetica unmonumental. Dalla Biennale del Whitney a quella di Berlino. Una riflessione su tenuta teorica e possibili sviluppi. E un’ipotesi tutta economica...

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Le mode, si sa, affliggono pure il linguaggio, lo forgiano senza sosta. Quanto alla forma temporanea che assume, può piacere o meno, ma tant’è. Così, nell’angusto ambiente dell’arte contemporanea s’è fatto largo a suon di titoloni un aggettivo, manco a dirlo anglofono, che innanzitutto è una negazione. Dapprima se n’era segnalata qualche sporadica apparizione in veste di concetto fantasmatico, quasi fosse un Ufo, ma il significante latitava. Poi, quasi d’un tratto, è giunto Unmonumental.
Così era accaduto per l’Arc de Triumph for Personal Use di Jimmie Durham, sotto il quale transitavano cauti i visitatori della mostra Less. Strategie alternative dell’abitare, curata da Gabi Scardi al Pac di Milano nel 2006. Un anno dopo era la volta del Padiglione della Romania alla 52esima Biennale di Venezia. Intitolato Low-Budget Monuments, vi si incontravano opere scientemente arraffazzonate a firma di Victor Man, di Cristi Pogacean e della coppia Mona Vatamanu & Florin Tudor.
Ma, sino alla scorsa estate, mancava le mot juste, come avrebbe scritto Flaubert. Poi ha inaugurato la nuova sede del New Museum sulla Bowery. E come vanno a chiamare la collettiva d’apertura i curatori Richard Flood, Laura Hoptman e Massimiliano Gioni? Unmonumental.
Trascorrono poche settimane e, a qualche strada di distanza, è il turno della Biennale del Whitney. “Exibart.onpaper” intervista la co-curatrice Shamim M. Momin: “I lavori in mostra evocano un senso di anti-monumentalità, rifuggono la spettacolarizzazione e mantengono una chiave di lettura frammentaria, non centralizzata, con dispersione dei punti di vista”. Per dirla con Germano Celant, che si esprime senza troppi giri di parole sulle colonne de “L’Espresso”: “I vecchi maestri la fanno da leoni”, maestri che sono “immersi in un magma di proposte che la stessa critica americana ha definito insulse”. Se proprio v’è qualche nome da salvare, a esclusione dei più stagionati, ci si deve rifugiare nell’ironia di Olaf Breuning o nella “psicogeografia” di Adler Guerrier, nei giacomettismi di Charles Long o nell’accumulo del compianto Jason Rhoades.
Guyton/Walker - Empire Strikes Back - 2006 - veduta dell'installazione presso il Carpenter Center for the Arts, Cambridge
Intanto, alla periferia dell’Impero il termine comincia a circolare: al Mambo di Bologna, per citare un unico esempio, sono non-monumentali le sculture di Guyton/Walker. Ma non intendiamo certo rinverdire la lagna del provincialismo italiano. Perché proprio in una delle città che più dovrebbero stimolare la creatività della vecchia Europa, vale a dire Berlino, si ripropone il refrain. Siamo alla quinta Biennale della capitale tedesca. La rassegna, curata da Elena Filopovic e Adam Szymczyk, si snoda sostanzialmente in quattro sedi: i KW, la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, lo Schinkel Pavilion -che ospita mostre temporanee nell’ambito del progetto generale- e, dulcis in fundo, lo Skulpturenpark Zentrum. È quest’ultimo che maggiormente ci interessa. Non si pensi a un curato giardino all’inglese o alla francese; e nemmeno a una disseminazione d’opere in stile Skulptur Projekte di Münster. Piuttosto si immagini un’area nemmeno troppo decentrata dove gomito a gomito stanno palazzine più o meno recenti ed edifici in costruzione, con tutto ciò che ne consegue in termini di masserizie e gru e ponteggi. Stretti fra tutto ciò sopravvivono, come templi zen fra i grattacieli di Tokyo, alcuni piccoli appezzamenti di terreno. Certo non con l’erba rasata e le aiole fiorite. Pascolando allegramente sotto l’eventuale pioggia ci s’imbatte in rari manufatti che qualcuno scambia con impalcature ancora da smantellare (Aleana Egan), con resti di un palco per la festa di quartiere (Cyprien Gaillard) o per i rimasugli di un’affissione forse abusiva in forma di manifesti (Caner Arlan) o imponenti billboard (Luciana Lamothe).
Quale consistenza ha quest’estetica anti-monumentale? A fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe agilmente ribattere che “consistenza”, “estetica” e “anti” sono erosi monumenti linguistici risalenti a un’epoca che ormai è stata consegnata alla storia. Charles Long - Untitled - 2006 - materiali vari - cm 365,8x182,9x17,8 - coll. dell’artista - courtesy Tanya Bonakdar Gallery, New YorkParole afferenti a un pensiero forte (parafrasando Vattimo), inserite nel contesto di defunti grand récits (per citare Lyotard). Così argomentando, naturalmente non c’è via d’uscita. Sempre che “uscita” non sia un termine troppo aggressivo.
Senza la pretesa di dimostrare quanto segue -pena lo scivolamento in uno pseudo-sistemismo che mai ci verrebbe perdonato- alcuni dubbi sorgono. Unmonumental è la negazione di monumentale, ossia di ciò che istituisce concretamente la memoria, sia essa individuale o, soprattutto, collettiva. Ciò che accomuna queste proposte artistiche forse non è dunque un’estetica, ma una forma nemmeno troppo inedita di rimozione o, meglio, di Verneinung. Non c’è benjaminiano angelo della storia che tenga. Qui si tratta di compiere, debitamente bendati, un bel salto oltre decenni di socialismo reale, di muri divisori, di recessione. Anche se quest’ultima è ancora in corso, palpabile.
Non v’è dubbio che “l’inizio di questo secolo è stato caratterizzato dalla mancanza di strutture monumentali e dall’erosione di simboli, segnato da immagini indelebili di distruzione e rovine”, come scrivono i curatori del New Museum. La soluzione consisterebbe nel voltare radicalmente pagina? Non s’è fatto altrettanto in parecchie occasioni, nel passato anche recente?
Già, ma per essere coerentemente non-monumentali pare sia necessario rammentare a malapena i simboli da affossare, e null’altro. Pena l’insorgere monumentale della memoria storica. Al limite si può far uso d’un bignamino, nulla più. Un libretto agile, scalcagnato e manco troppo preciso. Magari da inserire in un’installazione montata un paio di giorni prima dell’evento. È ancora Shamim M. Momin a spiegarlo: “In generale, c’è una tendenza verso la modestia nei materiali, ad esempio con perdita di interesse in produzioni che siano super-sofisticate, ma senza nessun tipo di junk aesthetic, sia chiaro. Ci sono anche delle rivisitazioni più o meno letterali dell’idea di decadimento e fallimento, sia in termini di sistemi socio-politici che della condizione moderna in se stessa”.
Katerina Sedá - Over and over - 2008 - materiali vari - diam. m 9,55
Sia chiaro”, sottolinea, niente estetica junkie. Ma un occhio alla recessione si dovrà pur dare. Si fa strada allora il dubbio più triviale: materiali modesti significa costi di produzione abbattuti e (eventualmente) prezzi in diminuzione. Se “sistema economico capitalistico” non fosse un’espressione palesemente retaggio del passato rovinoso, ci sarebbe da riflettere. Che si tratti di una scaltra estetica pauperista che della memoria deve fare a meno? Pena il rischio che qualche collezionista, privato o pubblico, cominci ad agitarsi vedendo cos’ha in magazzino. Che poi, il magazzino, non è più di moda, come la durevolezza, perché le opere d’arte sono beni di consumo non durevoli. O no?

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marco enrico giacomelli
mostre visitate il 2 e il 10-11 aprile 2008


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

2 Commenti

  1. Giacomo, sono stata a Rivoli (lascia perder il Mambo che e’ un caso clinico) e anche li ormai troviamo didascalie che glorificano la non-monumentalità delle opere. Qualcuno, magari chi inventa terminologie alla moda, dovrebbe spiegare nei suo striminziti saggi in catalogo, innanzitutto quale arte è “monumentale” dagli anni 60 in poi…

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