14 settembre 2010

VITE PARALLELE

 
Omologo veneziano. Snapshot dall’ultima Biennale di Architettura, sempre più simile a quella d’Arte (e viceversa). Un male? Un bene? Piuttosto, un dato di fatto che sollecita una riflessione. Se solo non incalzasse il dilemma: “Ma dove e quando l’ho già visto?”...

di

Da
quando gli architetti si son messi a fare gli artisti, e da quando gli artisti
si son messi a fare di tutto, non ci si capisce più niente. Così, un anno sì e
l’altro pure, il ritornello a Venezia è diventato: “Questo lo potrebbero
lasciare pure l’anno prossimo
”, indifferentemente riferito al progetto presentato per
la Biennale d’Arte o per quella di Architettura. Visti i tempi di austerity, il
consiglio non sarebbe disprezzabile, se non fosse emblematico di una situazione
ibrida che non si sa se provochi più disagio, interesse o rassegnazione tra
addetti ai lavori e visitatori. I quali non fanno in tempo a dimenticare che si
trovano a dover ricordare dove e quando si è vista la tal cosa. In ciò
agevolati dalla diffusione delle immagini su siti specializzati e social
network, dove la caccia allo smascheramento del déjà vu si fa implacabile.

Neanche
stavolta è stato troppo diverso. E ci si è messa pure la direttrice Kazuyo
Sejima
, la quale:
apre l’Arsenale con la “scultura” di Smiljan Radic + Marcela Corea; sbandiera uno spottone in 3d (su
se stessa) griffato Wim Wenders; convoca uno che architetto non è come Olafur Eliasson; fa “performare” l’indefesso Hans
Ulrich Obrist; dissemina foto qua e là (Niedermayr, Lambri); seleziona anti-strutture come
l’impalpabile ordito dei giapponesi junya.ishigami+associates (che s’è preso il Leone d’Oro e
le maledizioni dei fotografi) e la “stanza” polifonica di Janet Cardiff (che della Biennale – d’Arte – era
stata ospite nel 2001).

Ahmed R. Soliman, Ayman Lotfy, Amer Abd Al-Hakim Abbas, Nevine Fargaly - The search for Salvation - Giardini di Castello, Padiglione egiziano, Venezia - courtesy La Biennale - photo Daniele Podda
Ed
è vero che Kosuth
non ha l’esclusiva del genere, ma che c’azzecca in questo contesto la scritta
luminosa di Cerit Wyn Evans? E forse la Fray Foam Home di Andrés Jaque Arquitectos non somiglia, più banalmente, a un
grande mobile?
Il tutto in una disposizione vivaddio ampia, tesa soprattutto a valorizzare le
singole “opere”. Però, come a dire: limitati topografie, plastici, diorami,
rendering e modellini vari, largo a pratiche e linguaggi tradizionalmente
appannaggio delle arti visive.

Ai
Giardini, poi, s’incontrano curiosi “scambi culturali”: la Gran Bretagna
inalbera una costruzione in legno che a qualcuno ricorderà il discusso Padiglione
tedesco dello scorso anno (realizzato non a caso dall’albionico Liam Gillick), segno che lo stile-Ikea non è
ancora tramontato; la Germania tinteggia le pareti, affollate di disegni, con
lo stesso rosso cupo adoperato nel 2009 da Elmgreen & Dragset nell’inquietante “casa” Danimarca
(che, dal canto suo, poteva restare in loco). E che dire del take away consacrato da Bruce Nauman (guarda caso, trionfatore della 53.
Esposizione internazionale d’Arte…), ripreso da Croazia, Israele e Grecia?

La
passeggiata tra le partecipazioni nazionali stuzzica ulteriormente la
provocazione: quanti allestimenti potrebbero essere “riciclati” tra un pugno di
mesi?

Romina Grillo, Ciprian Rasoiu, Liviu Vasiu, Matei Vlasceanu, Tudor Vlasceanu - 1:1 - Giardini di Castello, Padiglione romeno, Venezia - photo Daniele Podda - courtesy La Biennale
Un rapido excursus, giusto per dare qualche spunto, da verificare
eventualmente de visu. Partendo dal Canada, col fascinoso intrico trasparente della sua “foresta
artificiale
” e
digitale, tramata di sensori; proseguendo con l’Ungheria e i suoi corridoi di
matite penzolanti, a centinaia; e ancora con la Russia, che accerchia lo
spettatore con un paesaggio a olio. La Grecia preserva in un’Arca i semi della
biodiversità; la Polonia propone di arrampicarsi fino all’Uscita d’emergenza; la Romania impone l’esperienza 1:1
di una
mastodontica mole bianca. E il monumental, almeno inteso come proporzioni, si prende la sua rivincita altresì
presso il fulgido Egitto e l’Austria Under Construction.

Ma il vero colpo di genio lo azzecca il Belgio, che passa in
rassegna materiali “recuperati” come parquet, moquette, sedute e ringhiere
sotto un titolo passepartout, Usus/Usures, che – concettualmente parlando – potrebbe giustificare
una presenza alla Biennale d’Arte. Nonché, a voler essere blasfemi,
mimetizzarsi in una bella rassegna sul Minimalismo.

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Il
rasoio di Sejima

anita
pepe

mostra
visitata il 26-28 agosto 2010


dal
26 agosto al 21 novembre 2010

12. Mostra
Internazionale di Architettura – People meet in architecture

a cura di
Kazuyo Sejima

Giardini della
Biennale, Arsenale e sedi varie – 30100 Venezia

Info: www.labiennale.org

[exibart]

10 Commenti

  1. ottimo argomento di discussione. è evidente che l’architettura in questo momento riesce a esprimere fascino solo attraverso l’installazione. concordo sul fatto che a questa biennale sembrava di stare alla biennale d’arte di venezia. cose già viste o che assomigliavano a qualcosa di già visto. mancava quello che dovrebbe rappresentare l’architettura. forse mancano le idee? o forse semplicemente come da secoli la diatriba sia sempre rimasta aperta gli architetti si sentono artisti (mancati) e ora vogliono farci vedere cosa sanno fare?
    è certo che per ora nulla di nuovo.
    anzi sempre peggio. ho letto che a torino e mialno degli architetti si occuperanno di “curare” (parolona!!!) un progetto di giovani design! allora siamo proprio alla frutta. nessuna nuova idea.
    W W W la vera arte! W W W i veri curatori!

  2. diciamo pure che siamo in una fase di stanchezza, dove poche son le idee e quello che si vede in giro sa tanti di trito e ritrito, non essendoci la volontà di cambiare, non converrebbe alle varie istituzioni, si preferisce ripetersi, annoiandosi, tanto son cose che poi si buttano… a spese dei contribuenti.

    Non sarebbe più sensato fare pochi progetti utili e stabili nel tempo, interventi reali e funzionali.

  3. Brava Anita,
    attenta e raffinata osservatrice;sai guardare e far riflettere come sempre,doti che mancano quasi del tutto ai giovani giornalisti,che ahimè sempre più si stanno trasformando in operatori di marketing.

  4. …un tempo esistevano gli artisti (pittori,scultori,incisori) che erano anche architetti progettisti di costruzioni, di oggetti e di decorazioni…oggi esistono gli architetti che vogliono fare, e fanno, gli artisti e gli artisti che NON POSSONO FARE GLI ARCHITETTI…..e qui c’è qualcosa che non funziona !!

  5. Quando si confondono i piani di realtà si rischiano abbagli clamorosi, come quello che ha preso la giornalista in questo articolo.

    Cosa c’è di strano nel fatto che alcune opere possano venire presentate sia in una mostra d’arte sia in una mostra d’architettura? Evidentemente tali opere avranno tanto valore artistico quanto architettonico: a seconda della modalità tramite cui ne faremo fruizione (secondo parametri architettonici oppure artistici) le concepiremo come opere architettoniche o, viceversa, come opere d’arte.
    Allo stesso modo non significa certo che ci siano architetti che si mettono a fare gli artisti e viceversa: quello che conta non sono gli individui in sè, ma i ruoli che essi rivestono; nulla di strano nel fatto che lo stesso individuo rivesta sia il ruolo di architetto (e in quel momento creerà opere architettoniche) sia quello di artista (e in quel momento creerà opere d’arte), anche nei casi in cui l’opera è una sola – così come può essere al contempo insegnante, marito, giocatore di calcio e arbitro di calcio ecc. -, ci meravigliamo forse del fatto che uno stesso individuo possa tanto giocare a calcio quanto arbitrare partite di calcio?; perché dunque stupirsene in altri settori?
    Tutto normale, insomma… e, mi si perdoni, articolo inutile.

  6. e allora non distinguiamo più tra biennale d’arte e d’architettura, facciamo la biennale dell’accozzaglia e buonanotte, tanto quello che conta è la fruizione: chessò, posso portare il filmino del mio matrimonio alla mostra del cinema o una crostata di nespole a documenta… giusto! chi l’ha detto che non un posso essere insieme marito scultore padre pasticciere campione di ping pong lavapiatti e chitarrista (il tutto da dilettante, ovviamente)?

  7. @doceo e celo: distinguere è necessario proprio perché sono i contesti a dettare le regole d’uso dei testi (mi pareva ovvio, ma tant’è…). Per fare un esempio (spero sufficientemente noto) molte delle opere di Leonardo da Vinci vengono esposte tanto nei musei della scienza e della tecnica quanto nei musei d’arte; secondo te perché? Non sarà, forse forse, perché a seconda delle modalità di fruizione (veicolate dai contesti) un medesimo testo può essere considerato in un caso studio tecnico e in un altro opera d’arte??, tu che dici?

    Per quanto riguarda la crostata, portala pure alla mostra che preferisci; ma non stupirti del fatto che possa essere fruita secondo parametri artistici anziché culinari. Non ci crederai mai ma, già cent’anni fa (mi sa che ti hanno preceduto), qualcuno espose uno scolabottiglie a una mostra d’arte (peeensa un po’ che cosa hai scoperto oggi!) e, ti assicuro, non venne affatto utilizzato per scolare bottiglie.

  8. sei troppo erudito, non ce la potrò mai fare. ti sono debitore per aver ampliato il mio orizzonte e le mie conoscenze. grazie di esistere

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