06 febbraio 2011

UNDICIDECIMI

 
di aldo premoli

La jeunesse dorée di Beirut si raggruppa a bordo vasca. Ragazze molto attraenti, come non ti aspetteresti di trovare qui: occhi languidi e sopracciglia disegnate, dita affusolate e immancabilmente laccate d’arancio fluo, corpi slanciati e tattoo, bikini e occhiali griffati, iPod e iPhone protetti da bustine rosa o verde menta...

di

Sole, in gruppo o accompagnate da coetanei
immancabilmente palestrati (mai troppo), le ragazze di Beirut sono circondate
da un via vai di camerieri indaffarati a servire snack, bottiglie di vino rosé
e cocktail alla frutta. E poi ci sono i capelli. Già, per capire il perché
dell’higiab sono dovuto venire sino a qui: le libanesi non musulmane ostentano
magnifiche masse di capelli che sanno muovere con grande malizia, facendone uno
strumento di seduzione, complice la luce del sud del Mediterraneo.

Sono acquattato all’ombra di un ombrellone nel
privé della piscina dell’Hotel Riviera sulla corniche del capoluogo libanese.
Il grande spazio di cemento bianco che racchiude le tre vasche si proietta in
mare e da questa posizione è possibile osservare, appena al di là dal muro, chi
fa il bagno nella spiaggia libera. Qui niente bikini, ma marmocchi con il
salvagente, padri di famiglia con costumi un po’ oversize e donne di stretta
osservanza musulmana che si bagnano completamente vestite, con i cappelli
raccolti in uno straccio. Il contrasto è evidente.

Del resto Beirut è l’epitome delle contraddizioni
del Medio Oriente. Sulla corniche sfrecciano mezzi militari con mitraglieri in
posizione, ma anche coupé con stereo a tutto volume. L’albergo dove alloggio di
fianco all’ingresso ha una garitta popolata da militari in tuta mimetica e
fucile. L’albergo, come tutti quelli storici, sta in un quartiere “conteso”,
mentre a Beirut ovest regna l’ordine imposto da Hezbollah e nel centro storico,
costituito dai quartieri cristiani di Achrafieh e Gemmayezh, convivono
palestinesi sprovvisti di permesso di lavoro che occupano palazzi abbandonati,
american bar e shopping mall per turisti provenienti da ogni parte del mondo.
Beirut, nonostante le distruzioni causate dalla guerra civile, non ha mai
smesso di essere l’importantissima piazza finanziaria e commerciale di sempre.

Veduta della mostra d’apertura Closer al Beirut Art Center - photo Agop Kanledjian
Nel 2009 la crescita del PIL del Libano è stata del
9% nonostante la crisi finanziaria internazionale. Attualmente nella capitale
libanese (2 milioni di abitanti) sono in costruzione 350 nuovi edifici e nelle
banche giacciono 96 miliardi di dollari di soli depositi privati provenienti
soprattutto dagli stati del Menasa (Middle East, North Africa e South Asia):
anche nei momenti più difficili il sistema bancario libanese non ha mai perso
la sua proverbiale solidità. La popolazione in Libano complessivamente assomma
a meno di 4 milioni di abitanti, ma la diaspora fatta da libanesi forniti di
passaporti americani, francesi, inglesi, sudamericani o “arabi” ammonta a quasi
il triplo ed è costituita da expat ricchi, eredi di una tradizione di traffici
e commerci davvero importante. Per un libanese è normale parlare francese
(lingua degli ex-coloni), inglese e arabo.

In Libano ha trovato ospitalità un’industriosa
colonia di armeni e, prima dell’arrivo dei rifugiati palestinesi, per secoli
cristiani e musulmani riuscivano a convivere pacificamente. La presenza
italiana è discreta e generalmente ben accetta. Gli italiani vengono qui per
offrire la loro moda griffata, per costruire palazzi e vendere i mobili che
servirono per arredarli: per non far torto a nessuno finanziano progetti a
qualsiasi gruppo politico. Sono mediterranei anche loro ed è vero che in certi
momenti, mentre passeggi sul lungomare, non ricordi bene se sei a Catania o sul
limitare della Penisola Arabica. È Beirut la vera piattaforma per i commerci
che dall’Europa si proiettano verso il Medio Oriente.

E qui i depositi in valuta straniera corrispondono
alle molte borse di Chanel, Gucci, Hermès, Prada o Vuitton che vedi al braccio
della ragazzina 17enne in hot pants e della saudita completamente velata,
sedute ai tavolini dello stesso Starbucks. E non si tratta solo di scarpe,
borse e occhiali. L’esterno del Beirut Art Center - photo Nadim AsfarLe banche, come dappertutto, acquistano arte contemporanea
per le loro collezioni, e allora ecco che il 13 e 14 luglio scorso
all’International Exibition and Leisure Centre di Beirut, Laure D’Hauteville –
già nel board di Art Paris e Art Paris-Abu Dhabi – ha invitato 30 artisti a
presentare un’opera ciascuno. Formula minimale che ha visto allineati lavori
provenienti da Berlino, Londra, Abu Dhabi e dalla stessa Beirut dove la
Galleria Q Contemporary, ad esempio, ha un giro consolidato di facoltosi
collezionisti privati. Beirut infatti è anche la capitale culturale dell’area
mediorientale.

Certo, le facciate crivellate dai proiettili ci
sono ancora e la città pullula di spie (francesi, americane, siriane,
israeliane, iraniane…) e c’è sempre l’incertezza del domani. Ma oggi va tutto
bene: il militare in tuta mimetica kalas non disturba la ragazza in bikini,
l’atmosfera è elettrica e pare di essere tornati ai favolosi anni ‘60, quando
Beirut, Monte Carlo e Saint-Tropez hanno vissuto il loro momento magico. Ma
domani? Uno tsunami politico-militare qui può cambiare la situazione in un
attimo: dal confine a sud con Israele e da quello a est e a nord con la Siria,
per il Libano non sono mai arrivate buone notizie. Ma anche questa è una
ragione in più per godersi la vita e spingere su consumi che non è detto
possano continuare restare gli stessi.

Le giovani libanesi fumano nei locali pubblici la
pipa ad acqua con un’intensità che non mi è capitato di vedere altrove: ma
Hamas nella striscia di Gaza ne ha di recente proibito l’uso in pubblico. Per
una donna pare sia un ammiccamento sessuale troppo esplicito…

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*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 68. Te l’eri perso? Abbonati!

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