19 giugno 2013

Dialoghi d’artista/ Giuseppe Stampone incontra Gian Maria Tosatti Per costruire una nuova cosmologia

 
Inizia oggi a Napoli un confronto tra artisti di diverse generazioni promosso da Gian Maria Tosatti. Che qui risponde alle sollecitazioni di Giuseppe Stampone. Sul tappeto stanno questioni grosse. Che non tralasciano il senso di fine che attraversa il nostro tempo, e quello dell’arte in particolare. Ma che provano ad assumerlo in una prospettiva di rinascita. «Non per fare cose nuove, ma capendo perché dobbiamo continuare a fare le cose antiche»

di

Giuseppe Stampone, Utopia, 2013

Poche ore prima dell’accensione dei microfoni, a Napoli, Museo Hermann Nitsch, incontro Gian Maria Tosatti. Ci prepariamo a dare corpo a «La costruzione di una cosmologia», che inizia con un ciclo di conversazioni pubbliche tra due artisti di diverse generazioni (io e Alfredo Pirri sul tema della politica, Giuseppe Gallo e Andrea Mastrovito sul tema della ricerca della bellezza, Gianfranco Baruchello e Alessandro Bulgini su quello delle utopie quotidiane, Stefano Arienti e Andrea Nacciarriti sull’economia e infine Jannis Kounellis e Tosatti parleranno del concetto di identità). È questo il programma che si terrà da giugno a novembre all’ombra del Vesuvio. Mentre già in autunno apriremo altre stazioni del percorso a Roma e poi nel nord Italia, fino ad una tappa significativa all’estero. Ogni stazione una diversa formula per indagare una scena artistica e le sue ragioni essenziali. 

La squadra di partenza oltre a me e Tosatti – curatore di questo primo appuntamento – conta anche Mastrovito e Nacciarriti. Ma è con Gian Maria che voglio parlarne prima che la corsa cominci.
Giuseppe Stampone: Abbiamo appena iniziato insieme un percorso di indagine sulla scena artistica italiana. Con tutta probabilità ci porterà ad incontrare molti artisti, a confrontarci con loro, a parlare della nostra pratica e delle nostre idee sul mondo, fino a tirarne fuori la possibilità di un nuovo panorama critico in cui poterci tutti riconoscere veramente. Lo faremo attraverso il progetto “La costruzione di una cosmologia”. Ma, prima di cominciare ad aprire questo canale di confronto, mi piace raccogliere l’invito di Adriana Polveroni e di iniziare da te, da noi. Parto ovviamente dall’ultima pagina della storia, l’ultima che ho visto, quella che hai scritto ad Ancona, con l’installazione “The kingdoms of hunger”, che prosegue la tua indagine sulla “fine del mondo” (in termini spaziali), di cui fa parte anche quello che è diventato una specie di monumento a Roma e che è  il grande telescopio montato in cima alla torre del Metropoliz. È un tema che a livello concettuale ha una forte risonanza con la mia ricerca di questi anni, pur producendosi con una diversa formalizzazione. Il tuo ragionamento, come anche il mio, parte dall’economia globale ed extraterritoriale che, fino ad oggi, è stata sempre più proiettata a produrre un divario maggiore tra le categorie più ricche e le categorie più povere. Ma nel tuo lavoro trovo uno sguardo che ha il carattere di un’epopea tragica. Sbaglio?
Gian Maria Tosatti: «La Tragedia ha la retorica della catastrofe da cui nasce la Storia. È il linguaggio in cui si scrivono i miti fondativi. Anche il “Vangelo”, per certi versi è una Tragedia. Pensa soltanto al teatro sacro e popolare rinascimentale, alle vie crucis. Pur modificando in parte la struttura, il linguaggio, è quello della tragedia attica. Oggi, come diceva Pasolini, siamo nella fase finale di una Nuova Preistoria, siamo nel bacino tragico per eccellenza, in cui prendono forma gli archetipi di un tempo nuovo. Uno di questi avrà l’aspetto di un pianeta che per la prima volta ha dei contorni definiti e la cui forma sferica ne definisce la finitezza. Non ci sono, come in passato, nuovi occidenti in cui poter fuggire per cercare la libertà. Oggi, le aspirazioni dei popoli devono essere strappate dai campi stessi in cui sono negate».
Giuseppe Stampone
G.S.: Quello che dici mi fa pensare appunto al tuo grande pavimento di cemento, affacciato sul Mediterraneo, da cui escono sette denti umani. Una immagine estremamente drammatica e calzante per quel che dici. Però ti invito anche a pensare, da un’altra prospettiva, come oggi il Villaggio Globale conduca alla trasfigurazione delle nuove tecnologie di comunicazione che hanno rifondato il nostro abitare nel mondo. Lo spazio politicamente organizzato da pochi per molti viene e verrà sempre di più spazzato via dall’intersecazione tra “Spazio Mentale” e “Cyberspazio” dando vita ad una nuova “Architettura dell’Intelligenza”; cioè ad un’Esperienza che mette insieme i tre principi ambientali in cui viviamo oggi “Mente , Mondo e Network”. Grazie a questa nuova dimensione riusciremo sempre più a rompere quella griglia prospettica rinascimentale che ci ha ingabbiato in tutti questi anni. Oggi gli argini del fiume sono straripati, è arrivata l’onda anomala che sta  spazzando tutti i centri di potere precostituiti fino ad oggi. 
G.M.T.: «L’opera che hai citato all’inizio, è l’esito di un dialogo con la realtà che ha nel titolo il verso di una poesia di Pasolini che dice proprio, riguardo a chi arriva dai regni della fame, che «prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare a essere liberi, prima di giungere a New York, per insegnare come si è fratelli, distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica». Roma, per Pasolini è proprio il simbolo di quella prospettiva rinascimentale di cui parli, da cui gli umili sono fuggiti per secoli in cerca di terre libere in cui rifondare l’utopia di un mondo nuovo. Oggi che il mondo è stato occupato tutto, che non ci sono nuovi paesi da fondare, le vecchie strutture tremano sotto la pressione di chi cerca spazio e libertà. I “negri” delle periferie del mondo non sono già più in nulla diversi dai bianchi delle periferie metropolitane. Come nella poesia di Pasolini, si scoprono fratelli nelle origini antiche e nelle aspirazioni, ossia nell’essere creature nate per essere libere. E dovranno necessariamente radere al suolo il vecchio mondo, a partire dalle sue cattedrali, per poterlo rifondare. Lo stanno già facendo, inconsapevolmente lo stanno rovesciando. E lo fanno non con il peso – e la lentezza che ne deriva – delle strutture mentali di chi finora ha amministrato quella “prospettiva rinascimentale”. Lo fanno con la velocità dell’intuizione. Anche il loro modo di usare l’arte è emblematico. Hanno preso il mio telescopio e l’hanno trasformato in una bandiera. Noi, avremmo pensato di metterlo nel cimitero di un museo, credendo che così sarebbe stato più utile. Che sciocchezza!»
Gian Maria Tosatti - The kingdoms of hunger - 2013
G.S.: Parli di “strutture mentali”, e così arrivi al punto. La nostra in Europa non è una crisi “Economica”, ma una crisi “Strutturale”. È una circostanza nuova rispetto alla Storia del Novecento e di questo nuovo secolo. Rispetto a questa nuova realtà come vedi l’arte Italiana? Ha ancora senso questo sistema dell’arte come lo conosciamo noi?
G.M.T.: «Bisogna capire cosa sta dicendo l’arte italiana. Io non lo so. Sono decenni che nessuno cerca di darne una lettura unitaria. So cosa pensano alcuni artisti. E mi pare che i loro pensieri siano frammenti di un discorso che andrebbe ricomposto per dargli l’ampiezza di respiro che merita. È quello che proveremo a fare nei prossimi mesi con “La costruzione di una cosmologia”. Se mi chiedi, invece, se ha ancora senso questo sistema dell’arte ti rispondo di sì. Il sistema dell’arte ha senso sempre. È un sistema. Va gestito. Dobbiamo imparare a gestirlo bene. A riportare al centro il valore della ricerca artistica e dell’opera. C’è molta gente che forse sta spendendo male i suoi soldi in questo mondo. Usa l’arte per apparire, generando confusione. Potrebbe comprare dei vestiti di alta moda. Spenderebbe anche meno». 
G.S.: Cos’è che cambieresti precisamente? 
GMT: «Non cambierei molto, in realtà. C’è del buono e ci sono persone straordinarie. Un tempo le persone a cui interessava l’arte venivano da noi per farsi curare l’anima, per dirla con Socrate. Poi è iniziata una specie di vezzosa ipocondria. È una tendenza. Hai presente quelli a cui piacciono le medicine a prescindere? E noi, seguendo questa tendenza, da medici siamo diventati dei farmacisti collaborazionisti. Prescriviamo le ricette che ci chiedono. Non tutti, non sempre. Ma dobbiamo smetterla. Molti che in realtà non voglio farsi curare l’anima, ma vogliono solo drogarsi di medicine, si troveranno un altro hobby. Mettiamoci l’anima in pace. Non perderemo molto». 
Andrea Nacciarriti, And the ship sails on, 2013

G.S.: Una delle nostre ultime conversazioni l’abbiamo fatta proprio a seguito di un articolo apparso qui su Exibart a firma di Raffaele Gavarro, che parlava dell’ultimo film, La grande bellezza,  di Sorrentino. Il mondo dell’arte di cui mi parli mi fa pensare a quel decadimento. È il decadimento italiano. Per tanti anni ci siamo nascosti dietro simboli politici, economici e collettivi, in cui le responsabilità venivano nascoste, taciute, frammentate e in cui risultava difficilissimo individuare i responsabili. Questa realtà per troppo tempo è diventata RIFUGIO per molti e LIMITE per altri (le nuove generazioni) ed è annegata in una omologazione mortifera. Proprio per questo il nostro non vuole essere un collettivo, ma un network di condivisione; uno spazio Connettivo più che Collettivo in cui ogni artista ha la libertà di scegliere la propria area d’interesse dove proiettare il proprio diario intimo, il proprio mondo, dove l’Io diventa Noi ma dove il Noi non annulla più l’identità dell’Io. Il tuo IO, sviluppato e portato avanti in questi anni come si trasfigura all’interno di questa condivisione? 
G.M.T.: «Mi fai una domanda strana, a cui forse non so rispondere, non per impreparazione, ma perché non esiste una risposta. È come chiedere a qualcuno come si colloca nel mondo. Io faccio la mia parte. Con la ricerca di cui sono portatore. Nell’arte, in fondo, valgono alcuni principi che sono molto chiari nelle scienze. Ogni ricercatore, ogni fisico, astrofisico, ingegnere genetico, è un individuo con qualità insostituibili, ma spesso lavorare in squadra, confrontare i risultati, può portare a raggiungere risultati molto maggiori». 
Gian Maria Tosatti

G.S.: Parlare di risultati mi riporta al un concetto di avanzamento. E di contro mi viene in mente la Foresta di Cristallo di J. G. Ballard dove il protagonista, il dottor Edward Sanders, si reca in Camerun per cercare un amica avventurandosi all’interno di una foresta apparentemente normale. Solo in seguito Sanders si renderà conto che nella foresta ogni materia vivente si cristallizza e si trasforma in cosa inanimata; il tempo è bloccato. Ormai da cento anni qualcuno ha detto  «il tempo e lo spazio morirono ieri »; è possibile che siamo ancora bloccati lì? In una sorta di ready-made duchampiano in cui cambiano le forme, ma i contenuti rimangono gli stessi. E di chi è secondo te la colpa maggiore tra artisti, curatori, collezionisti, eccetera? C’è qualcuno che deve iniziare a preoccuparsi di questa nuova esperienza che stiamo affrontando, oppure al contrario qualcuno che può iniziare a gioire?
G.M.T.: «Prima citavo l’ Apologia di Socrate per parlare di cosa può portare l’artista in una società. È una storia di oltre 2400 anni fa. Oggi continuiamo a fare le stesse cose. Ci occupiamo dell’anima dell’uomo. Siamo stati i primi. Poi sono arrivati i preti e poi ancora gli psicoanalisti. Ma nella religione non ci credono tutti. E la psicoanalisi è spesso fallace. L’arte, invece, la puoi odiare perché ti accusa, perché ti riflette per come sei davvero. Ma non puoi non credergli, pensa a opere come Guernica! Socrate diceva che aveva insegnato ai giovani ateniesi a discernere il bene e il male. Oggi io sono andato a vivere a Napoli, per iniziare un grande progetto che mi terrà qui due anni, per indagare il limite tra il bene e il male e condividere il percorso coi napoletani delle strade, dei vicoli. Per farlo mi faccio accompagnare dalle riflessioni di Santa Teresa d’Avila, anche lei, una figura di quasi cinquecento anni fa. Eccomi qui, a tentare quello che altri, come me, hanno fatto incessantemente per quasi venticinque secoli. La foresta di Ballard è l’anima dell’uomo e noi ne siamo i giardinieri. Da sempre, come fossimo un antico ordine religioso o di cavalieri. Non mi preoccupa se siamo fermi da cento anni. Se guardi bene siamo fermi da molto di più. Il problema non è fare cose nuove. Il problema è solo capire perché dobbiamo continuare a fare le cose antiche». 

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