28 novembre 2014

“I sentieri battuti sono pieni di visioni addormentate” al Filatoio di Caraglio. Ecco come indagare il confine, partendo da una lunga residenza. Tre domande ad a.titolo

 

di

il progetto di Daniella Isamit Morales
Mettiamo insieme un gruppo di artisti: Franco Ariaudo, Giorgio Cugno, Irene Dionisio, Luca Giacosa, Daniella Isamit Morales, Stephen Loye, Matthieu Montchamp, Cosimo Veneziano.
Mettiamoci anche due tutor d’eccezione: Luca Vitone e Saâdane Afif. Ora portateli in residenza, per oltre un anno, al confine, tra Alpi italiane e francesi, sotto la curatela di a.titolo.  Ne nasce “I sentieri battuti sono pieni di visioni addormentate”, ultima tappa di un’esperienza di formazione che debutta domani in uno spazio decisamente particolare: il Filatoio di Caraglio, in provincia di Cuneo. Ci raccontano il progetto le curatrici. 
Vorrei partire dal titolo, complesso e poetico: significa che, molto spesso, ci dimentichiamo di come sia sempre differente la strada che conosciamo tanto bene?
«È proprio così. Il titolo della mostra è nato durante il workshop con Saâdane Afif, la scorsa primavera, come esito di una riflessione collettiva condivisa da tutti i partecipanti. Per individuarlo abbiamo ragionato con gli artisti su molti temi e parole chiave, in particolare in rapporto all’idea di “confine”, di “limite”, di “attraversamento”, e di “osservazione e controllo”. Sul filo del ragionamento siamo arrivati a evidenziare il concetto di fiction, e alla bellissima espressione fictions endormies coniata da Saâdane. Il termine fiction è di difficile traduzione in italiano, tiene insieme l’idea di racconto ma anche d’immaginazione. Tutti gli artisti partecipanti al progetto “Acteurs transculturels: Creatività giovanile, linguaggi a confronto”, da cui nasce la mostra, “avevano bisogno del reale”, come ha osservato Saâdane – sono stati scelti per questo – e tutti hanno lavorato in questo intervallo tra realtà e finzione. Ci interessa in particolar modo la funzione “rivelante” e “trasformante” delle fiction, degli immaginari e delle narrazioni che nella scelta affabulatoria del titolo appaiono “addormentati”, e che possono essere “risvegliati” attraverso una pratica artistica orientata ad agire nel e con il reale per mostrarne anche il rovescio, che non è mai semplicemente il contrario ma il frutto di uno spostamento dei punti di vista. Gli artisti che hanno partecipato a questo progetto hanno scelto prospettive eccentriche, procedendo per libere associazioni da indizi ricavati dall’osservazione e dalla ricerca e inscrivendo nella cartografia ufficiale nuove pieghe, margini, disegni». 
L’ambiente alpino è certamente un territorio di confine. Se doveste tracciare un sondaggio, chi sono stati gli artisti più “frontalieri”, gli italiani o i francesi? E perché?
«La mostra nasce da un percorso di ricerca che si è svolto nell’arco temporale di oltre un anno, caratterizzato da workshop e periodi di residenza sui versanti italiano e francese dell’area interessata dal progetto “Acteurs transculturels”. La ricerca svolta dagli artisti nasceva quindi con un mandato e dentro una specifica cornice istituzionale, quella di un progetto di cooperazione transfrontaliera sostenuto dall’Unione Europea nel quadro del programma Alcotra 2007-2013, oltre che di uno specifico territorio, quello della provincia di Cuneo e dei dipartimenti francesi immediatamente confinanti, le Hautes-Alpes e le Alpes de Haute Provence. Stretto tra opposti cliché, l’immaginario della montagna solitamente oscilla tra il sublime e il pittoresco dell’offerta turistica, la desolazione generata dall’abbandono e dalle conseguenze delle strategie di sviluppo e la tematizzazione della tradizione artigianale ed enogastronomica. A partire da questa constatazione, una dello nostre domande di partenza è stata la seguente: in che modo è possibile, per un artista visivo, costruire delle nuove narrative che si sottraggano alla logica del consumo e al tempo stesso all’elegia del tempo perduto, al di fuori di uno sguardo naturalistico o etnoantropologico? Ci interessava inoltre indagare, in questo preciso momento storico, la complessità e la pluralità del concetto stesso di frontiera, emblematico di una realtà che sfugge alle possibilità di un racconto lineare e nella quale le contraddizioni convivono e si scontrano. Nei loro progetti, con linguaggi che vanno dal video all’installazione, dalla pittura alla fotografia, gli artisti coinvolti evidenziano aspetti diversi legati al confine. Ne indagano la natura politica, come nel caso di Cosimo Veneziano, che dà forma ad un archivio “opaco”, leggibile solo per frammenti, intorno a un’idea altra di nazione, quale l’Occitania, o il suo potenziale metaforico, come nel caso di Outflow di Giorgio Cugno: un film della durata di mezz’ora che esplora il concetto di frontiera, anche interiore, attraverso l’elemento connettivo e fluido dell’acqua, trasformando due centrali idroelettriche situate una in Italia e l’altra in Francia in un unico mondo narrativo. Irene Dionisio e Matthieu Montchamp, con differenti mezzi di rappresentazione, il video e la pittura, indagano entrambi aspetti legati alla guerra, sia come agente di trasformazione morfologica che come uno dei fondamenti dell’idea stessa di confine. Daniella Isamit Morales si situa invece lungo una linea temporale immaginando di dar vita al paesaggio primordiale di questi territori duecentocinquanta milioni di anni fa, prima della comparsa dell’uomo e di ogni possibile definizione geografica. Franco Ariaudo indaga il fenomeno del turismo da “piazzola di sosta” che interessa entrambi i versanti transalpini, mentre Luca Giacosa osserva in maniera inedita l’ambiente montano, dove vive, affrontando mediante il tema della luce gli effetti dello spopolamento. Per finire, Stephen Loye il confine lo ha attraversato compiendo un viaggio di 360 gradi in 360 ore, con l’obiettivo di creare una propria rappresentazione di quel paesaggio, senza soluzione di continuità: una geografia di luoghi e spazi formulata utilizzando i materiali, gli oggetti e le immagini trovate lungo il percorso. Il tempo a disposizione e i numerosi momenti di discussione e condivisione che lo hanno contraddistinto, ha consentito agli artisti lo sviluppo di progetti dall’ampia capienza concettuale, che a prescindere da dove materialmente sono stati ideati o realizzati rispondono tutti alla richiesta di interpretare questo territorio attraverso un filtro tematico che assumesse al tempo stesso un carattere di località e di universalità».
Una geografia estesa (che valica i confini) per rileggere anche il patrimonio locale, come è stato con l’aiuto dei due tutor Vitone e Afif. Pensate che questo sia l’unico modo possibile oggi per mettere a punto un vero e proprio “scambio” nell’arte?
«Il progetto “Acteurs transculturels” individua  nell’incontro e nel mutuo scambio di visioni e competenze uno strumento per accorciare le distanze culturali, in un più ampio contesto disciplinare di cui le arti visive non sono che una parte. Per quanto riguarda la sezione del progetto che ci ha impegnate in qualità di direzione artistica, alla base di questo approccio c’è la convinzione che l’arte costituisca un versatile strumento per valorizzare e rileggere in chiave contemporanea i patrimoni locali, siano essi materiali o immateriali. Quindi non è l’unico modo possibile, ma è quello che è stato ritenuto più appropriato alla cornice in cui ci siamo trovate a operare. In questi ultimi decenni la definizione stessa di patrimonio è sottoposta a una profonda risignicazione. Cosa è oggi Patrimonio? Come costruire patrimonio (le opere della mostra entreranno a far parte delle collezioni degli enti partner promotori del progetto, la Regione Piemonte con i Dipartimenti delle Hautes-Alpes e delle Alpes de Haute-Provence e l’Associazione Marcovaldo), in un tempo nel quale il luogo geografico si definisce sempre più come un  flusso in divenire? In una geografia globale qual è lo spazio per il patrimonio locale? Durante il percorso di ricerca, insieme con gli artisti coinvolti e i due tutor, ci siamo interrogate anche sui cambiamenti profondi ai quali è soggetto il paesaggio culturale nel tempo della crisi dei paradigmi e delle narrazioni che hanno accompagnato la modernità. Nell’ideare un percorso formativo, che si è sviluppato con incontri tra operatori di differenti settori, sopralluoghi e il lavoro con i tutor, abbiamo provato ad attivare un dialogo a più voci ponendo l’arte contemporanea all’interno di questo complesso processo di risignificazione. Proporre la produzione culturale contemporanea quale strumento capace di cogliere le trasformazioni che attraversano e disegnano i territori e chi li abita, come sono e come saranno: un’arte in divenire nel quale coesistono e dialogano dubbi, contraddizioni e direzioni opposte proprio come in quei “sentieri battuti” citati nel titolo. Nel loro insieme le opere in mostra manifestano una potenzialità di racconto che eccede le retoriche dell’identità e della marginalità, della memoria e del patrimonio concepito come valore cristallizzato, dimostrando che, come sosteneva Paul Ricoeur, scoprire e inventare sono inseparabili».

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui