16 maggio 2015

Una biennale da discutere

 
Ha deluso, ha mantenuto le aspettative, meglio o peggio di quanto si credesse. La Biennale di Okwui Enwezor fa comunque riflettere. Ecco alcune idee e impressioni/1

di

Francesca Pasini. La politica nell’arte? Maybe
“Tutti i futuri del mondo” non ci dicono come cambiare il mondo. La contraddizione è la chiave di volta della Biennale. Dire, più che denunciare, le disparità è un grado di consapevolezza che si emancipa dalle rigidità ideologiche, ma il rischio è l’agiografia. La contraddizione ritorna. L’analisi dei soprusi, delle povertà, dei razzismi culturali e politici, che prende forma in modo multiforme in artisti di tutto il mondo, di tutte le culture e le età, dovrebbe essere il passo in avanti che mette al centro la relazione con l’altro. Ma questo “racconto consapevole”, che trasmigra in quasi tutti i padiglioni, rischia l’omologazione ed esalta la passività  attuale. Le persone non vanno quasi più a votare, le ribellioni sono spesso episodi d’intolleranza che non riescono a prefigurare nuovi soggetti politici. Insomma è finito il sogno dell’arte che intuisce il cambiamento e ne fa una sintesi dello spirito del tempo?  Sì e no. Sì, perché non ci sono figure che fanno fare uno scatto verso il non conosciuto; no perché questa sequenza di opere di qualità, che compongono l’archivio del dolore presente nel mondo, ci rende consapevoli della difficoltà in cui siamo immersi. 
La lettura del Capitale di Marx che cadenzerà tutti i mesi della Biennale, è il  passo centrale della contraddizione. Da un lato è un simbolo di un’epoca che ha sognato e agito rivoluzioni e rivolte; dall’altro pone la domanda: utilizzare Marx e il complesso e articolato pensiero marxista per affrontare la crisi economica è attuale? Il potere è ormai quello delle cinquecento multinazionali che governano il mondo, i riferimenti politici nazionali non sono più sufficienti a distinguere le loro politiche. Il lavoro non c’è, ma tutti deplorano i tentativi di costruire una cultura dei diritti del lavoro attuale. E allora Marx come lo rileggiamo?
Alla Biennale il sistema dell’arte internazionale è, come sempre, presente e potente. Forse è azzardato, ma esiste un’analogia tra sistema finanziario internazionale e sistema dell’arte. Il collezionista e imprenditore Maurizio Farè mi diceva, «oggi il denaro frutta solo nella finanza, per le persone normali i benefici non ci sono, le banche non danno più nulla, quindi molti vengono alla Biennale per vedere di comprare qualcosa che abbia un valore oggi e in futuro».   
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Viene un po’ un groppo in gola e una malinconia per le figure che offrivano intuizioni e speranze di rovesciare i sistemi. Nel senso che spingevano a ragionare sull’immaginazione e non solo sulla critica. Però per anni, per decenni, ci siamo battuti per un diritto di critica e oggi la Biennale lo evidenzia in modo puntuale e dialettico. Forse non sappiamo reggere il dolore che ci aggroviglia, come appare in Monica Bonvicini, che fa pendere da lunghe catene, un ammasso di seghe e attrezzi, impegolati da una nera pece, gocciolante. Difficile liberarsi dalla vischiosità del dolore. Ma questo sentimento umano, che è bene tenersi un po’ nel cuore per capirlo, una volta che diventa un segno diffuso, rischia di essere inoffensivo. 
Enwezor non è caduto nella trappola di edulcorare il disagio, ma non ha sconfitto l’ombra della separazione tra il capitale e il lavoro, che oggi investe l’economia globale. Non è il compito dell’arte, ma nel momento in cui Enwezor pone la lettura di Marx idealmente e fisicamente al centro della mostra, non si può evitare di chiedersi: qual è il ruolo dell’arte nella politica? La critica che rintraccia tra le opere, rischia di diventare una specie di “realismo socialista”, sebbene non encomiastico, piuttosto che un giudizio sul Capitale Contemporaneo. La contraddizione non si ferma, ma non mette in moto nuove energie. Che dolore!
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Stefano Velotti. Dieta curatoriale per un pubblico reale
Sarebbe facile sparare a zero su questa 56° edizione della Biennale firmata Enwezor. E ancora più facile farlo quando è richiesta una “reazione a caldo”, dopo tre giorni di visita estenuante. “A caldo”, l’unico effetto è una sorta di anestetizzazione da sovraccarico, dove i punti di ispirazione evocati dal curatore (L’angelo di Klee, Il Capitale di Marx, Aby Warburg, i confusi “filtri” sovrapposti sul tema esorbitante “Tutti i futuri del mondo”) – “senso comune” e scontato di qualsiasi neolaureato in filosofia o storia dell’arte – appaiono tanto inutili, scontati e prevedibili come gli yatchs miliardari ormeggiati in laguna davanti all’Arsenale e ai Giardini. 
“A caldo”, l’unica opera a cui sono grato è una di quelle di Fabio Mauri, ma non fra quelle scelte da Enwezor per il Padiglione centrale: mi riferisco invece a La resa (2002), una semplice bandiera bianca issata su un palo, e inserita in un insieme di lavori meno significativi nell’accogliente “Serra dei Giardini” che ha per titolo Flags. Mauri scriveva a proposito di quest’opera: “È la resa del giudizio. Del mio almeno. Mi allaga l’incapacità di capire. […] E la Storia, cui ho sempre dedicato attenzione come tracciato indicativo di un significato comune all’uomo, ombre comprese, in fine stritola la coscienza in un cappio di stupore e ribrezzo. È stupida. […]. Questa mia è una resa formale. Una bandiera bianca. Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite di pace”.

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Mentre non conterei troppo sulle “alternative inedite di pace”, posso anch’io sospendere il giudizio, ma solo provvisoriamente, per osservare e ascoltare meglio, per dargli tempo di prendere forma e maturare. Giudicare deve essere l’esito di un dialogo con se stessi e con gli altri, il precipitato di un processo in cui ci si forma un’opinione. Forse è quel che intende Enwezor quando, con un’espressione suggestiva (ma non so ancora quanto pregnante o vuota), allude alla sua mostra come a un “parlamento delle forme”, e propone l’Arena come teatro-piazza nel cuore del Padiglione. Non ho dunque gli elementi per condividere le parole sprezzanti di Robert Storr, secondo cui Enwezor «è un demagogo che rigira le sue ‘teorie’ a seconda delle occasioni istituzionali e delle sue ambizioni. […]Quest’anno ripete una finta devozione a Marx, ma in termini pratici Enwezor pensa come un corporate raider». Magari è vero, ma suona un po’ come un regolamento di conti a otto anni di distanza (si leggano le parole altrettanto sprezzanti di Enwezor su Artforum, 46, 2007, a proposito della Biennale curata da Storr). 
La domanda che resta, forse quella cruciale, è questa: chi è il pubblico della (o di questa) Biennale? Per farsene un’idea adeguata, infatti, bisognerebbe frequentarla per sei mesi (e chi ha i soldi e il tempo per farlo?), leggere le molte pubblicazioni in corso d’opera, seguire le performances, analizzarne le contraddizioni inevitabili etc. Altrimenti, si può dire di questo o quell’artista (alcuni notevolissimi, altri pessimi), dare un giudizio più o meno tranchant, dire cosa manca (per es., una riflessione sulle nuove tecnologie) e passare a un’altra Biennale tra quelle infinite sparse per il mondo, in una coazione a ripetere faticosa e vuota. 
Allora, forse, bisogna rischiare di più, rinunciare alla bulimia curatoriale, fare un’ipotesi identificabile e modesta (e dunque davvero ambiziosa) e proporla a un pubblico reale, mettendolo in condizione di valutarla.
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Riccardo Caldura. Il tempo obbligato del presente

Mi pare vi sia un elemento che emerge in questa Biennale: una certa mano ferma tenuta dal curatore nel disporre opere e spazi. Il che dà l’impressione di una manifestazione controllata, coerente rispetto agli intenti, siano questi condivisibili o meno, che si è proposto Enwezor. Il richiamo esplicito a Marx,  se per un verso ha ‘bucato’ comunicativamente, pur attirando critiche alquanto puntute, rischia di irrigidire la percezione stessa della mostra in una tesi ben esposta. Un po’ come accade con la rilettura di Das Kapital, che, sempre efficace dal punto di vista comunicativo, rende meno percepibile quella che è probabilmente la vera novità di questa Biennale: l’Arena, cuore pulsante del Padiglione Centrale, con performance, film,  interventi musicali, conferenze, letture, per l’intero periodo. Va dato atto a Enwezor di aver proposto, con una qualche perentorietà,  una complessa argomentazione intorno all’arte. Arte la quale a che fare con il proprio tempo, con le sue contraddizioni e tensioni. E dunque ha a che fare con le forme della rappresentazione del potere e dei modelli di sviluppo, con le condizioni del lavoro, le tensioni politiche e religiose, la violenza, la distruzione della natura, la tensione fra individualità e sistema, la frammentazione e la perdita di senso. 
L’insieme e anche la ricchezza delle opere d’arte che costellano il percorso più che generare una percezione del futuro genera una caleidoscopica percezione del presente, attraversata non tanto da linee prospettiche, ma dal senso della fine. Forse è questa la parola chiave di questa Biennale: il senso non del futuro, ma della difficoltà a scrutare un futuro possibile, se, come pare, siamo immersi piuttosto in un mondo che non si rende conto delle contraddizioni da cui è attraversato. Probabilmente l’opera di Marx va letta in una chiave più fenomenologica che ideologica. Come una presa d’atto della condizione nella quale viviamo, e che proprio per le sue contraddizioni sembra ruotare intorno al senso di una lunghissima fine, senza riuscire a protendersi verso una qualche speranza, che non sia illusione, e questa Biennale sembra credere poco alle illusioni. 
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Proviamo a mettere in fila alcune opere: l’apertura del padiglione centrale con Fabio Mauri: il muro di valigie, i lavori sulla parola The End. Ma prima ancora i velari neri di Oscar Murillo sulla facciata neoclassicheggiante, a cui corrispondono le facciate in sacchi di juta di Ibrahim Mahama che nascondono i lati degli edifici della lunga camminata esterna delle Corderie. La cui sala iniziale si apre nella semioscurità di una dolente sala d’armi: con coltelli/spade a comporre i ‘fiori’ di Abel Abdessemed, e alle pareti i non meno duri lavori al neon di Nauman; poco più avanti il cannone puntato di Pascali che si rivolge direttamente verso lo spettatore, e verso la fine del percorso le bellissime pitture degli appesi a testa in giù di Baselitz. In mezzo all’ampio florilegio di quel che il caleidoscopio dell’arte può proporre fra osservazione e critica dell’esistente, resta, fra le molte opere di qualità, il doppio video di Steve McQueen, Ashes (“I know Ashes as a friend. All of us were young, man”).

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