21 luglio 2016

“Luglio suona bene” anche di arte. Tre domande a Kazu Makino, frontwoman dei Blonde Readhead, dopo la data alla Triennale di Milano

 

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Il programma di “Luglio Suona Bene”, rassegna musicale ormai di casa all’Auditorium Parco delle Musica di Roma, si ammanta di toni sofisticati. Stiamo parlando dei Blonde Redhead, band newyorkese che questa settimana si esibisce in sei date italiane, tra cui quella alla Triennale di Milano ieri e al foyer dell’Auditorium sabato 23. Abbiamo rivolto qualche domanda a Kazu Makino, cantante e compositrice del gruppo: una voce fina che si amalgama con una sezione ritmica e un impasto musicale curati da Amedeo e Simone Pace, la cui finezza è tale da andare ben oltre le aspettative dei cultori dell’alt rock. 
I Blonde Redhead si formano a New York nel 1995, in piena esplosione del sound britannico più vicino al pop-rock. Da subito decidono quale strada intraprendere: e la loro è quella di un suono alternativo e no- wave, che non a caso incontra quello dei Sonic Youth e dei Fugazi, il cui cantante, Guy Picciotto produce nel 2004 “Misery is A Butterfly”, riproposto in questo tour italiano per la prima volta accompagnato da un quartetto d’archi. L’immagine del disco non è un affaire secondario per i Blonde Redhead poiché in questo caso scelgono una fotografia dell’artista e architetto torinese Carlo Mollino (1905-1973) che rappresenta una donna sul ciglio di una porta. Parlando con Kazu Makino, abbiamo scoperto che questo scambio con l’arte non è episodico: dalle suggestioni di Diane Arbus, fino alla copertina dell’ultimo album, “Barragan”(nella foto sopra un particolare), dove i più acuti non stenteranno a riconoscere una lontana traccia di un lavoro di Horst P. Horst (Mani, mani del 1941), ma che in realtà è un’opera della forse meno nota (ma non per questo meno degna di nota), fotografa surrealista francese Claudia Cahun (1894-1954). Ma passiamo la parola a lei:
Misery is a butterly, cover
Nel vostro album “23” avete collaborato Alex Gross, un graphic designer vicino al pop-surrelism. Come è nato questo rapporto?
«La prima volta che ho incontrato Alex Gelman ho portato con me l’immagine di una donna con molte gambe presa dal “Circo Vittoriano”, una serie che avevo visto e apprezzato nella biblioteca di Diane Arbus. Volevo quest’originale come artcover, ma Gelman mi ha consigliato di lavorarci su per rendere il prodotto migliore. Ho accettato un po’ a malincuore, nella speranza di ottenere un prodotto d’arte sofisticato e sfarzoso. Sempre Gelman ha poi commissionato il lavoro ad Alex Gross: all’inizio non sapevo cosa fare, ma quando poi ho scelto i colori di sfondo mi sono resa conto che stava venendo fuori un buon lavoro». 
E a proposito della copertina dell’ultimo album, “Barragan”?
«Stavo raccogliendo inconsciamente molte immagini di mani e il mio amico Andrew Roth, che è un mercante d’arte specializzato in fotografia, mi ha mostrato questa foto di Claudia Cahun. In quei giorni ci stavamo esibendo a Mexico City, ci ha raggiunti la mia migliore amica Jane Mayle e ha organizzato un tour a “La Casa Luis Barragan”, così ho messo insieme questi due elementi. Ho lavorato a questa immagine con il graphic designer tedesco Lucy Kim, che vive a New York. Ho sempre trovato così divertente la realizzazione delle cover degli album: arrivano come una ricompensa dopo aver terminato la musica!». 
In generale qual è il tuo rapporto con l’arte e qual è l’ultima mostra che hai visitato? 
«Non cerco di trovare l’ispirazione forzandola: credo di esser circondata da buoni stimoli. La lascio andare comunque vada, anche accettando che le cose vengano in modo causale; in questo modo mi vivo e ciò mi diverte. Per me è abbastanza rilevante che dopo aver completato la musica proseguo con la parte artistica che connette i puntini naturalmente: del resto l’arte è già presente nei testi dei cd o sotto forma di racconti nella musica. Tra i musei che adoro cito The Broad di Los Angeles e ho appena perso l’opening della personale di Diane Arbus al Metropolitan di New York che conto di visitare non appena torno in città». (Eleonora Minna)

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