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Quest’anno festeggerà il suo 70esimo compleanno, e ha assicurato che al Guggenheim di New York ci sarà un elemento sul quale potrà scaricare tutta la sua nuova passione: un palo da pole dance. Già, perché Marina Abramović, la donna della performance, di compiere azioni non si è stancata, e in un’intervista al quotidiano tedesco Tagesspiegel, racconta le “ragioni” della sua carriera.
Peccato che per certi versi sembri ormai assolutamente autoreferenziale, in un parlarsi addosso quasi come a difendere strenuamente le sue posizioni da una barricata che ormai è ben lungi da crollare, forte di quasi mezzo secolo di carriera.
La Signora Abramović, che sta scrivendo un’autobiografia che uscirà entro la fine dell’anno, non ha mancato di dare risposte decisamente sui generis, tradendo ancora un’immensa sicurezza di sé: «La differenza tra il teatro e la performance è che nel teatro il sangue è ketchup», o ancora «Io sono l’opera d’arte. Non è possibile inviare un dipinto, così mando me stessa: l’anno scorso non sono stata più di 20 giorni a New York. Negli aeroporti mi toccava pensare “Da dove arriva la mia valigia?”».
Insomma, un jet lag continuo, come ambasciatrice di se stessa. Una condizione dettata e resa possibile solo dalla sua libertà: «Ho avuto tre aborti perché ero certa che i figli sarebbero stati un disastro per il mio lavoro. Avrei dovuto dividere la mia energia. A mio parere questo è il motivo per cui le donne non hanno mai avuto lo stesso successo degli uomini, nel mondo dell’arte, perché una donna non vuole sacrificare amore, famiglia, figli».
Cara Marina, posizioni condivisibili o meno, ma non ti sembra di essere un po’ fuori tempo, e di dare sponda alla stessa sfera del maschile che tanto sembri, sottilmente, denigrare? Buon allenamento al palo, intanto!