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Nato nel 1932, identificato come “designer”, Enzo Mari è stato probabilmente molto di più. Un creatore della forma-funzionale e funzionante, legato indissolubilmente alla città di Milano.
Che in una conversazione con Hans Ulrich Obrist e Stefano Boeri, pubblicata sul Corriere della Sera, affida i suoi desiderata: «Voglio donare le carte, ma restino inaccessibili per 40 anni. E niente casa museo». Perché?
La risposta, a Obrist, è quasi spiazzante: «Perché ipotizzo, con la convinzione di un bambino un po’ ottimista, che solo tra quarant’anni una nuova generazione, non degradata come quella odierna, potrà farne un uso consapevole. Ho grande speranza che ci sia, nel futuro prossimo, una generazione di giovani che reagiscano e che riprendano in mano il significato profondo delle cose».
Eversivo, rispetto ai tempi correnti, nel vero senso della “corsa” frenetica verso la voglia di mostrare tutto e subito: «L’errore che si fa oggi è di imitare senza capire. Io ho visto molte varianti dei miei lavori, eseguite senza che i lavori fossero capiti. Si è persa qualsiasi forma di conoscenza. Le idee senza conoscenza non sono nulla. Oggi ci si mette a progettare imitando cose che già esistono, senza capire come davvero esse funzionino», continua.
E ancora più reazionario, si scaglia contro le case-museo: «È un’idea che mi fa orrore, perché ho potuto constatare negli ultimi dieci anni che cosa spesso gli eredi sono portati a fare: valutazioni filosofiche non corrette sulle opere, poiché al giorno d’oggi si è persa la capacità di critica oggettiva verso un’opera. Vengono spesso fatti discorsi di totale ignoranza, e questo atteggiamento errato riguarda indistintamente tutto il mondo del design e della critica». Insomma. Poco si salva. E il Comune di Milano, come potrebbe raccogliere questa storia di atto di volontà?