01 settembre 2017

Iconico, sensuale, empatico Jan Fabre

 
Dallo Studio Trisorio al Museo di Capodimonte, passando per il Madre e per il Teatro Politeama. I luoghi dell’arte di Napoli, conquistati dai simboli dell’artista belga

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L’ultima settimana di giugno Jan Fabre ha conquistato Napoli. Dallo Studio Trisorio, al museo MADRE, dal Museo di Capodimonte al Teatro Politeama, lui c’era.  Scultore, performer, autore, regista e drammaturgo, Fabre incarna l’artista poliedrico per eccellenza, la sua ricerca oscilla tra l’immaginifico e il razionale, tra cultura analitica e percezione sensibile.
Una settimana, dal 26 giugno al 5 luglio, densa di appuntamenti e iniziata alla galleria di Riviera di Chiaia, con l’apertura di “My Only Nation is Imagination”, personale a cura di Melania Rossi e visitabile fino al 28 ottobre. Una mostra interamente rivolta a indagare il cervello, uno degli organi più misteriosi e affascinanti del corpo umano – e, a dire di Fabre, il più sexy – sede del rapporto tra meccanismi fisiologici e produzione di idee e sogni. Come l’artista ha chiarito con il video presente in mostra, Do we feel with our brain and think with our heart?, le sculture di cervelli realizzate in silicone, coronate da frutti, oggetti e insetti, con la materia grigia che si allunga per assumere le forme di gambe femminili, sono la manifestazione della tensione tra scienza e intelletto, tra il pensiero razionale e quello emozionale. Una mutazione di forme che si avvicina all’imitazione della natura e che ha a che fare con l’apprendimento e l’empatia, sulla scia degli studi sui neuroni-specchio condotti dello scienziato Giacomo Rizzolatti, con il quale ha intessuto il dialogo-performance del video.
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Jan Fabre, the sweet and satisfied brain of the lab-monkey, 2014, Ph. Pat Verbruggen – Angelos bvba
A pochi giorni di distanza, Fabre ha presentato al MADRE, ancora con il supporto dello Studio Trisorio, L’uomo che misura le nuvole, opera che ha un legame consolidato con Napoli poiché fu esposta nel 2008 in occasione della mostra a Piazza Plebiscito. In continuità con un lavoro di lunga data sulla scultura e sull’autoritratto, L’uomo che misura le nuvole esprime la lirica tensione verso l’inafferrabile a cui fa da contrappunto l’attitudine all’analisi scientifica dei fenomeni. Un atteggiamento simile quello che induce gli uomini a indagare tanto il meccanismo delle sinapsi quanto le leggi della natura, finendo per essere sopraffatti dall’incomprensibile. Così la scienza si fonde al mistero, una visione tipica di quella cultura pre-illuministica che ha alimentato la formazione delle Wunderkammer, gabinetto delle meraviglie e delle cose rare, amate da aristocratici e intellettuali di tutta Europa. Proprio a Capodimonte, dove si conserva la raccolta Farnese di mirabilia e naturalia, Fabre ha esposto due opere in dialogo con gli oggetti della collezione riorganizzati in teche realizzate ad hoc. Al tentativo di addomesticare e comprendere la natura, l’artista affianca un altro fenomeno di dominazione, che ha attraversato la storia del mondo e tutt’ora vivo, benché sotto altre forme. L’opera Railway Tracks to Death, rivisitazione dello stemma delle ferrovie del Congo belga, fa esplicito riferimento alla sistematica sopraffazione applicata su larga scala attraverso il colonialismo. Composto interamente da esoscheletri di scarabei verdi iridescenti, sovrapposti per creare un effetto squamato e vibrante, lo stemma presenta al centro una grottesca figura zoomorfa, tratta dai dipinti di Hieronymus Bosch. Dello stesso materiale organico è composta Spanish Sword (Knight of modesty), una spada simbolo di investitura cavalleresca, che rimanda a contesti fantastici e a visionarie storie cortesi.   
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Jan Fabre, My only nation is imagination, installazione video, 2017
Più pervasiva, se possibile, è stata la presenza dell’artista nel palco di regia, tra gli spettatori del teatro Politeama, in occasione del debutto in anteprima dello spettacolo Belgian Rules / Belgium Rules, nell’ambito del Napoli Teatro Festival. Lo spettacolo ha concluso il tour de force di aperture nei luoghi simbolo dell’arte napoletana, attraverso i quali ha disseminato le tracce di un lavoro complesso, che si dirama in più direzioni e che trova l’epilogo compiuto proprio nell’attività teatrale. 
Belgian Rules / Belgium Rules non è propriamente un inno al suo paese ma una riflessione, suddivisa per quadri, sui luoghi comuni: multiculturalità, ospitalità, gentilezza, osservanza delle regole e, naturalmente, la birra. Virtù che continuamente, nell’arco delle 4 intense ore di spettacolo, sono stravolte, scandagliate, analizzate minuziosamente, negate e accostate ad altri motivi che rendono il Belgio noto in tutto il mondo. Durante la performance, interpretata intensamente dai suoi «guerrieri della bellezza», ogni riferimento è improntato alla presenza, alla verità, al realismo. Il penetrante odore di birra, continuamente ingurgitata e sparsa sul palcoscenico, la fatica fisica nell’esecuzione di un serie di esercizi ginnici coordinati con l’enumerazione di regole paradossali, l’allusione alla cronaca e al presente, creano una soluzione di grande empatia, in uno spettacolo che, però, è piuttosto ripiegato su se stesso. 
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Belgian Rules, foto Wonge Bergmann
Da questo en passe Fabre esce vittorioso non solo per l’esecuzione mirabile dei performer e per la perfezione compositiva delle scene. Uno spettacolo che vince se lo si interpreta come una enorme sineddoche, se lo spettatore si predispone a vedere nel Belgio lo specchio di una qualsiasi nazione e a visualizzare nei suoi paradossi le contraddizioni di ogni Stato, se nei luoghi comuni viene riconosciuto lo stereotipo di ogni altra cultura. Così, la storia del colonialismo è la storia di tutto l’occidente, il Belgio stesso non è che l’intera Europa, sopraffatto dalla burocrazia e dall’omologazione. Fabre insiste sul benessere percepito, esito del fatturato vertiginoso ricavato della vendita di armi, sulla sessualità svilita, sul nazionalismo e sul razzismo, celato sotto una coltre di buone maniere e individualismo. Belgian Rules / Belgium Rules non è tanto memorabile per i suoi contenuti, spesso macchiati di un metateatro poco brillante e una scrittura non all’altezza delle aspettative, ma per la presenza di una vitalità che si sprigiona oltre le parole – pronunciate peraltro in 4 lingue – che resta addosso all’uscita dal teatro, insieme a quel misto di calore, birra e piccole note di delizia e bizzarria tipica della visione fiamminga del mondo, della vita e delle cose, della quale si fa interprete la ricerca di Jan Fabre.
Luciana Berti 

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